La Provincia – 22 Ottobre 2011

Mentre in queste frenetiche ore le immagini delle spoglie mortali del «Colonnello» Mu’ammar Gheddafi fanno il giro del pianeta, entrando a pieno titolo nell’iconografia di questo tragico inizio di nuovo millennio, in molte case di Latina e provincia ci sono persone che non guardano a questo evento con la distratta attenzione che in genere si presta alle notizie provenienti dall’Estero, percepite come fenomeni troppo grandi e sideralmente distanti dalla propria vita. Sono invece vigili, e attenti, come se la presa di Sirte e la caduta di quel lontano dittatore del deserto, non fosse solo una notizia da Tg, ma una questione personale intimamente legata alla propria vita. Con la memoria tornano tutti, inevitabilmente, a quarant’anni fa, ai tragici giorni dell’autunno 1970, quando il neo insediato regime del Colonnello dispose la sistematica confisca dei beni e1’espulsione coatta dei circa 20mila italiani presenti in Libia. Duemilacinquecento tra questi esuli vivono oggi in terra pontina. E per loro, la caduta del regime, l’idea di una Libia di nuovo libera, la morte di Gheddafi, non sono solo eventi storici, ma istanti in cui un conto con la storia si chiude, e una ferita nel vissuto personale in parte si ricuce. A descrivere e raccontare contrastanti sentimenti dinanzi ai fatti libici – con straordinaria lucidità e pacatezza – pensa in queste ore Giovanni Corazzina, ex funzionario del Banco di Napoli nato a Tripoli nel 1936, espulso dal paese nell’agosto 1970, ed oggi residente a Latina e delegato provinciale dell’Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia.

Corazzina, cosa si prova a vedere Gheddafi ridotto da potente dittatore a povero corpo, trofeo mediatico?

«Ci riflettevo sopra proprio un attimo fa – dice con tono pacato – guardando le immagini alla televisione. Una morte non mi fa mai esultare. Però, intimamente mi sento sollevato. Non esulto, certo, ma comunque intimamente mi sento sollevato, come ripagato per un torto subito. Noi italiani non meritavamo di essere espulsi. Nel senso che erano tanti i rapporti, le amicizie intrecciate. E insieme ai libici avevamo superato anche il periodo del Colonialismo: ognuno lo aveva metabolizzato e la riprova di questo è che nel ‘69, nonostante Gheddafi aizzasse la folla contro di noi, nessuno ci torse un capello. Noi pensavamo che da un momento all’altro la folla ci avrebbe assalito, ma i libici ci trattarono con rispetto».

Adesso però, superato Gheddafi, si apre una nuova era: ha per caso voglia di tornare?

«Vede, una volta venuto via dalla Libia, non ci ho pensato più. Non ho più nessuna aspirazione se non quella, una volta ristabilita la calma nel paese, di ritornare in quei luoghi come visitatore. Ma forse ci vorranno anni per pacificare la Libia, e per come è ridotta dopo la guerra, forse è meglio non andarla a vedere».

Capisco il disincanto e i tanti anni trascorsi, ma c’è un pizzico di nostalgia?

«Beh, sicuramente. Vorrei andare a vedere per esempio l’azienda di mio padre. Sorgeva a una ventina di chilometri a sud di Tripoli, in una zona che si chiamava Suani Ben Aden. Era specializzata nella coltivazione di frutta e tabacco e vi lavoravano mio padre e i miei fratelli. Avevamo come vicino di casa il Re Idris, perché aveva comperato un’azienda proprio vicino alla nostra. Dopo il giugno del 1967 mio padre capì che l’atmosfera era cambiata e la vendette. Se penso al passato mi tornano in mente la scuola che frequentavo, l’istituto Umberto di Savoia dei fratelli delle scuole cristiane de La Salle. E poi il campo di calcio perché a Tripoli giocavo nella squadra della Fiat, che era allora una succursale della Juve, e nella Rappresentativa italiana della Libia, una sorta di nazionale degli italiani nel paese. Ero il classico centromediano di difesa. Mi piacerebbe rivedere anche il quartiere in cui vivevo dopo essermi sposato, lavorando come dirigente del Banco di Napoli. Era l’ex via Mazzini, a due passi dal palazzo reale, ed era stato ribattezzato dopo la guerra Shara Afghani, “via degli Afghani”. A Tripoli, del resto, sono nato ed ho vissuto 34 anni. Anche mia moglie è tripolina e lì ci siamo conosciuti e sposati. Lì è nata anche la mia prima figlia che più di me avrebbe voglia di tornare in quei luoghi. Ciò che vorrei gustare di nuovo, una volta ancora, è però il silenzio del deserto. Un silenzio che ha un senso di assoluto, e ti rende persino incapace di pensare. E’ una cosa impagabile guardare quella distesa infinita, e sentire solo il rumore del vento».

Cosa ricorda dei tragici giomi della vostra espulsione?

«Ricordo un clima di disordine: l’atmosfera si era fatta pesante Mio padre era già partito con la famiglia ed io feci venire via mia moglie e mia figlia con i visti per l’espatrio. Io invece presi un mese di ferie per vedere come si sarebbe evoluta la situazione. Quando arrivai al porto per imbarcarmi dissi all’ufficiale della dogana che più tardi sarei dovuto rientrare per addestrare il personale libico che doveva sostituirci in banca. Mi disse di no: chi esce non entra più e annullò i visti. Partii dalporto di Tripoli e lasciai una Fiat 1500. Anni dopo ho saputo che era stata confiscata come “bene dei fascisti”. Ma in quel momento non c’era spazio per la nostalgia. Partire fu un sollievo, ma andai via con molta rabbia e angoscia per i tanti problemi che avremmo dovuto affrontare».

La Libia ora conoscerà la democrazia?

«Vede, tutto dipenderà da quello che emergerà nelle trattative tra le 4-5 fazioni che hanno preso parte alla rivoluzione. Si conoscerà lo spirito con cui hanno agito. hanno preso parte parecchi elementi che parteggiavano per il vecchio potere e il dubbio è che qualcuno abbia scatenato tutto questo solo per sostituirlo. Spero tuttavia che la rivoluzione sia stata animata da un autentico spirito di cambiamento».

Come hanno reagito i 2500 italiani di Libia che vivono in provincia di Latina? Vogliono tornare?

«Beh, intanto devo dirle che inizialmente eravamo qualche migliaio in più. Ben oltre 2500. Poi, col passare degli anni il numero è diminuito. Ma la presenza è rimasta comunque significativa: basti pensare che Latina è l’unica sezione Airl d’Italia che ha una sede fissa. Detto questo, gli eventi di questi giorni hanno suscitato grande attenzione. Ci sono alcuni tra noi che la pensano come me. Ci sono invece altri che in Libia andrebbero anche subito, magari di notte, in barca, come i clandestini. Deve pensare che dall’accordo del 2008 ad oggi alcuni della comunità pontina si sono recati già in Libia. Chi per un viaggio di nostalgia, chi invece per verificare se ci fossero possibilità di investimento. Io, a 75 anni, ci andrei solo per un viaggio di piacere»

Possiamo dire però che le è rimasta un po’ di Libia nell’anima?

«Non direi. La ricordo piuttosto come un’esperienza della mia vita che si è interrotta. Tornerei per vederla, ma non farei una pazzia. Anche perché difficilmente ritroverei i tantissimi amici libici che avevo. Molti saranno scomparsi, finiti chissà dove, o semplicemente non si ricorderanno di me. Devo dire però una cosa. Dopo anni vissuti nel frastuono delle città, esposto al caos urbano di continui rumori, vorrei udire di nuovo il silenzio del deserto. Quel silenzio, in fondo, mi è rimasto dentro l’anima».

Aldo Anziano