La Repubblica – 21 Ottobre 2011

Vatti a fidare dei dittatori pazzi, ma ancora meno conta sull’onestà dei presidenti e dei ministri italiani. Un giorno ti incensano e ti spupazzano per Roma, il giorno dopo ti bombardano; un giorno bussano a quattrini oppure firmano con Gheddafi un trattato d’amicizia perfino imbarazzante. E poi, appena ammazzato, gioiscono per le sorti della democrazia o magari si trovano a esprimere pensose riflessioni in latino ecclesiale sulla caducità delle cose terrene, sic transit gloria mundi e così via, avanti un altro.

Ora, la politica internazionale non è roba da cuoricini. Ma quel che colpisce, nell’approccio del governo, è la più vistosa e scombinata esagerazione, la fantasmagoria, di direbbe, del voltafaccia. Per cui il ministro La Russa che oggi si commuove al telefono con l’indomita rappresentante degli italiani cacciati dalla Libia è lo stesso che due anni fa voleva prestare le Frecce tricolori al regime e anzi si diceva «orgoglioso» che la nostra pattuglia fosse applaudita laggiù.

Applausi evitati in extremis, per la verità. Così come solo all’ultimo momento fu scongiurato che nel giugno del 2009 Gheddafi parlasse con tutti gli onori nell’aula di Palazzo Madama. Il presidente del Senato Schifani, ieri prodottosi in un sermoncino sul «percorso verso la democrazia» eccetera, aveva tranquillamente concessa quell’aula — dopodiché il Colonnello riversò il suo delirio nella Sala Zuccari.

E Frattini, che adesso dice assai più di quello che sarebbe decoroso, beh non molto tempo fa si diede addirittura da fare con la Svizzera, rendendosi incauto garante, per sbrogliare certi impicci famigliari del tiranno libico. E la Carfagna? Gli organizzò un cenone con 700 donne — senza contare le amazzoni, a prova di illibatezza con ciondolo-ritratto del Principale al collo o le 530 ragazzette dell’agenzia “Hostessweb” che il Colonnello si fece recapitare in torpedone. La stessa cura riversata dal sindaco Alemanno, quello dei valori della Cristianità: dopo avergli lasciato piantare il tendone a villa Pamphili se lo portò in Campidoglio per il solito rito del balcone sui fori.

E si potrebbe andare avanti a lungo e anche parecchio indietro nel tempo ricordando le specialissime relazioni con l’Avvocato Agnelli e poi con Andreotti, a cui nel 1993 Gheddafi si offrì di pagare l’avvocato; e con Craxi, che lo chiamava “Capitan Fracassa”, ma nel 1986 gli salvò la pelle; quindi con Lamberto Dini e poi ancora con Prodi e con D’Alema, che dall’uomo ucciso ieri in quel modo terribile l’altroieri ebbe in dono una scimitarra berbera, chissà dove l’ha messa. Però, diamine, quanto ad amicizia e finta amicizia, calore e ipocrisia, sorpresine, regaloni e miserabili tradimenti

Berlusconi ha sbaragliato qualsiasi altro concorrente italiano. O almeno: dal giorno in cui andò a ricevere Gheddafi all’aeroporto nonostante il torcicollo fino a quello in cui gli mandò aerei da guerra per fargli la festa, ecco: mai la diplomazia è trascesa in forme così grottesche alimentando un immaginario in cui gli interessi nazionali facevano drammatico e buffo cortocircuito con foto di nipotini mostrate sotto la tenda, gigantografie dei due leader sui muri di Tripoli, tornei equestri tra cavalieri berberi e carabinieri, lacrime per il colonialismo e sonnellini, plateali doni di cammelli, moschetti, anelli, complimenti per le uniformi e i costumi di scena, anche lusinghe sul numero dei figli pure illegittimi attribuiti al raìs, «su questo campo non ti batto». Fino all’indimenticabile baciamano: «Un’emozione — scolpì il Cavaliere inaugurando la tv del suo amico Tarak Ben Ammar — che porterò nel mio cuore per tutta la vita».

Cosa non è accaduto negli ultimi anni! Dall’addestramento della scorta di Gheddafi da parte dei Nocs fino al mito fondante e alla leggenda primigenia del bunga bunga, come raccontato da un ilare Berlusconi a Ruby, ma pure a Sarkozy (colta l’arietta, a villa Madama la Lagarde, parruccona, si allontanò). «Colonnello, lei è come Berlusconi» gli disse una volta Sgarbi. E per la verità non intendeva sul piano estetico, pur avendo frequentato i due leader lo stesso chirurgo estetico nella persona del dotto Ribeiro.

Era un riconoscimento per molti versi antropologico, esistenziale. Forse anche un modo per ricordare che il potere è una bestia feroce, una spada sopra la testa, un congegno per ingannare la morte, ma solo la propria, e chissà per quanto.

Filippo Ceccarelli