Corriere della Sera – 20 Luglio 2011

Sono di ritorno dal Jebel Nafusa, l’ altopiano montuoso a nord-ovest della Libia che costituisce – dopo quello di Misurata a est, poi quello di Brega ancora più a est – il terzo fronte di questa guerra di cui ho voluto rendermi conto andandoci di persona. Quel che ho visto mi porta a contestare, più che mai, le dichiarazioni stranamente disfattiste che da qualche settimana si odono a Washington, Londra, Roma e Parigi. Dichiarazioni che ci parlano, per esempio, dell’ esercito ribelle come di un esercito disorganizzato, mal preparato al combattimento, indisciplinato. Sul fronte di Gualich, che è la sua prima linea di attacco davanti alle forze di Gheddafi, ho constatato il contrario: una cinquantina di uomini ben addestrati, inquadrati da ex militari che hanno disertato e fieri di avere, in dieci giorni, riconquistato i 60 chilometri che li separano da Zintan, base del comando unificato della regione. Il contrario, francamente, dell’ impantanamento. Ci dicono che si tratterebbe di combattenti che non vedono al di là del loro villaggio e incapaci di una visione strategica d’ insieme in vista della presa di Tripoli. A Zintan come a Yefren, in terra araba come in zone berbere, si sente e si vede tutt’ altro. Una ribellione, cioè, il cui obiettivo è Tripoli. Capi tribù per i quali l’ unità della Libia è diventata, nell’ impeto della lotta, un imperativo. Ufficiali perfettamente consapevoli del fatto che questo obiettivo è raggiungibile solo in stretto coordinamento con la direzione operativa delle forze Nato. Nulla a che vedere, di nuovo, con il disordine, l’ improvvisazione, lo «spirito tribale», come ci viene ripetuto di continuo. Ci si preoccupa della qualità degli armamenti di cui dispongono gli insorti e dello squilibrio di forze che ne sarebbe la conseguenza. Che ai rivoltosi manchino, per poter effettivamente marciare sulla capitale, armi pesanti e semi-pesanti, è probabile. Ed è probabile che la Nato dovrebbe rispondere, al più presto, alla loro richiesta di bombardare le postazioni di Jawsh, Tidji, al-Jhizaya, al-Ruess e Badr, da cui l’ artiglieria continua, mentre scrivo queste righe, a minacciare le popolazioni civili di Nalut e al-Araba. Ma un grande progresso è stato compiuto con la consegna, in particolare da parte della Francia, di parecchie decine di tonnellate di armamenti, buona parte dei quali è andata nella regione del Jebel Nafusa. Per chi avesse qualche dubbio, l’ équipe che mi accompagnava mette a disposizione le immagini che ha potuto filmare di questa consegna di armi. Era un fine pomeriggio, su una strada che sovrasta la vallata, ma al riparo dal fuoco nemico. I ribelli l’ hanno trasformata in una pista d’ atterraggio, segnalata come tale e illuminata per 1.600 metri . Un aereo da carico, proveniente da Bengasi, si è posato lì. Ha scaricato materiale, totalmente coperto e immediatamente sistemato su pick-up giunti da Zintan, che vi sono subito ritornati. Secondo uno degli uomini del check point, si trattava di una mezza tonnellata di armi semi-pesanti destinate alle prime linee. Ci descrivono infine l’ esercito di Gheddafi come un esercito che «resisterebbe» – sic – alla Coalizione. Oltre al fatto che applicare il bel termine «resistenza» alla soldatesca di un tiranno allo stremo mi sembra un’ ingiuria al buon senso; oltre al fatto che le nostre indicazioni lasciano sospettare che il tiranno possegga l’ arma sporca per eccellenza, il napalm, si dà il caso che siamo potuti entrare, a Zintan, in una madrasa trasformata in prigione militare e in una sala dell’ ospedale dove vengono curati i prigionieri feriti. Qui abbiamo raccolto due tipi di testimonianze. Racconti di mercenari venuti dal Niger, dal Mali, dal Sudan e che, a Asabah, di fronte a Gualich, costituiscono apparentemente la metà degli effettivi. E la testimonianza di un artigliere libico che ci ha raccontato, in condizioni deontologicamente accettabili, cioè non davanti ai suoi carcerieri, come i suoi compagni restino al loro posto solo perché hanno, dietro di loro, aguzzini incaricati di abbatterli al minimo tentativo di diserzione. È questo l’ esercito «lealista» pronto a morire per la sua «Guida»? Aggiungo che il militante dei diritti dell’ uomo quale io sono non poteva non avere in mente, e contestare ai responsabili dell’ esercito dei libici liberi, che la Ong Human Rights Watch lo aveva recentemente accusato di violenze. Violenze che tutti i miei interlocutori, a cominciare dal colonnello Mukthar Khalifa, vice-capo della Difesa di Zintan, hanno categoricamente smentito. Io stesso, sui 60 chilometri che separano Zintan dal fronte di Gualich, non ho trovato traccia di altre distruzioni o saccheggi, se non quelli commessi sistematicamente dai mercenari di Gheddafi allo sbando. Almeno su un punto, quello del saccheggio nell’ ospedale di Aweinya, sono in grado di smentire queste accuse, poiché è l’ assemblea locale della città, diventata una città quasi fantasma, che ha deciso di trasferire il materiale medico che vi si trovava verso la città, più popolata, di Zintan: tale decisione è stata oggetto di un atto amministrativo nella debita forma, che ho visto con i miei occhi. È un dettaglio? Forse. Ma è da dettagli di questo genere che si può giudicare il comportamento, come anche l’ avvenire, di un movimento di resistenza. Insomma, davvero non capisco il tono disincantato dei commentatori che non hanno mai trovato troppo lunghi i 42 anni della dittatura ma che, improvvisamente, trovano interminabili i 100 giorni della liberazione. E ancor meno capisco i ripetuti appelli a un «negoziato» che, da solo, permetterebbe di uscire dal «pantano» in cui i signori Cameron e Sarkozy ci avrebbero fatto precipitare. Non c’ è che una «soluzione politica» alla crisi aperta, il 17 febbraio scorso, dall’ offensiva lanciata da questo regime contro il proprio popolo: l’ allontanamento di Gheddafi – e intuisco che ci siamo vicini. A quali condizioni? Se accantoniamo il necessario rafforzamento di una resistenza che è sulla via del successo, ma deve ancora progredire, ci sono tre condizioni alla vittoria finale. 1. Che i francesi, i britannici e i loro alleati non cedano all’ intimidazione e continuino sulla strada che hanno aperto: questa guerra, poiché riguarda un dittatore che aveva promesso di annegare il proprio popolo «in fiumi di sangue», è una guerra giusta. 2. Che Washington, anche se si tiene in disparte e lascia l’ essenziale delle operazioni agli alleati europei, non cada in una auto-flagellazione che porterebbe la guerra di Libia a raggiungere l’ assurda guerra d’ Iraq nella stessa riprovazione: la guerra in Iraq si basò su una menzogna di Stato (le famose e introvabili «armi di distruzione di massa»), nulla di simile per la guerra in Libia. Quella dell’ Iraq fu una guerra di vendetta (11 settembre… la volontà, di Bush figlio, di lavare l’ affronto fatto a Bush padre da un Saddam Hussein che non gli fu grato di averlo risparmiato), nulla di simile per la guerra in Libia. La guerra d’ Iraq, in una sorta di messianismo democratico, credeva in una democrazia portata dall’ esterno e capace di nascere da un giorno all’ altro. In Libia, ci siamo appoggiati su una rivendicazione democratica giunta non solo dall’ interno, ma dal profondo della società, e incarnata, in particolare, dal Consiglio nazionale di transizione. 3. Che la comunità internazionale, infine, non cada nella trappola che consisterebbe nel far di Gheddafi chissà quale «topo del deserto» capace di sfidare le forze coalizzate, e diventato una specie di semi-eroe che si batte da solo contro tutti: senza ricordare Lockerbie e il sostegno militare al terrorismo irlandese di cui si potrebbe, al massimo, ritenere che appartengono al passato, non bisogna perdere di vista né la brutalità della repressione condotta da Gheddafi contro il proprio popolo né il fatto che la sua iniziale, istintiva reazione al primo giorno dell’ intervento alleato, fu di minacciare, in risposta alla nostra offensiva sui suoi aerei militari, un’ offensiva sui nostri aerei civili: il che è la definizione stessa del terrorismo. Gheddafi non è «cambiato». Non ha mai smesso di essere – e tale rimane – un tiranno barocco ma sanguinario, diventato maestro nell’ arte del crimine di massa.

Bernard Henri-Levy