Libero – 17 Aprile 2011

A chi, se non a lui, posso chiedere quale potrà essere il futuro della Libia? E chi, se non lui, può aiutarmi a decifrare l’intricata personalità di Ghed­dafi, tiranno spocchioso ed esibizionista, cinico e pericoloso, bruciato da un orgoglio smisurato? Incontro il principe Idris Al Senussi, nipote dell’ultimo re libico di cui porta il nome, in un grande albergo di Washington. Seduti nella sua suite si parla della tragedia del suo paese e di quali saranno le prossime iniziative. Ci offre un caffè la moglie, la marchesa Ana Maria Quinones, nobildonna spagnola di grande classe e di grande fascino, che lo segue ovunque. Principe, lei crede che Gheddafi accet­terà di andare in esilio quando si accorgerà di non avere più vie d’uscita? Se lo vede con la valigetta in mano voltare le spalle al potere, al petrolio, al paese che ha tenuto in scacco per 42 anni? «Non se ne parla nemmeno che se ne vada, non ci pensa proprio, non lo farà mai. E poi dove potrebbe andare, chi lo vuole? Non lo vuole nessuno. Forse la Russia, ma che fa, mette la sua tenda sulla piazza Rossa, si accampa al Cremlino?»

Non si può più tentare nessun tipo di accordo? «Dopo che ha bombardato il suo popolo con i caccia, non c’è più intesa possibile».

Allora non restano che due possibilità, o si ammazza, o lo ammazzate. «È troppo vigliacco per suicidarsi. lo comunque sto mettendo a punto un piano che dovrebbe isolarlo completamente, che dovrebbe risolvere il pro­blema. Non ci ho dormito molte notti e sto precisando tutti i particolari. Ne ho parlato con molti libici che vivono qui in America e ricoprono posizioni di grande prestigio, molti sono professori d’università che insegnano nei migliori istituti, lavorano nei grandi ospedali, in importanti società. E naturalmente ne ho parlato con i miei parenti in Libia. Credo in pochi giorni di poter concludere questo lavoro, poi preparerò un dossier da presentare al Dipartimento di Stato americano e ai vari governi europei, ognuno lo avrà nella sua lingua. Naturalmente in questa operazione sarà coinvolto il movimento senussita che io guido e che gestisce la seconda maggiore moschea della Mecca. La confraternita dei senussi è una delle grandi correnti progressiste dell’Islam, fra le più tolleranti verso la modernità e i non mussulmani».

In libia la vostra famiglia è molto ama­ta, com’era molto amato re Idris che governò per quasi vent’anni fino al golpe I del colonnello. Infatti la bandiera che hanno issato i ribelli, quando si sono opposti a Gheddafi, è stata quella della, famiglia reale, la vostra e non altre. «Quando in televisione l’ho vista sventoare non mi vergogno a confessarle che mi sono messo a piangere come un bambino. Ho pensato a mio nonno, a mio padre, a quale sarebbe stata la loro soddisfazione se avessero potuto vedere».

Principe, lei pensa ci possa essere un ri­torno alla monarchia? Anche se siete in tre a pretendere il trono, oltre a lei in­fatti, c’è suo fratello maggiore Hashem e suo cugino Muhammad. Ci vorrebbe un trono a tre posti. «Sarà il popolo libico a decidere se vuo­le la monarchia o un buon governo, composto da gente di specchiata onestà, amore profondo per il paese e disponibilità a sacrificarsi per migliorare il futuro della Libia. A me interessa il bene dei miei connazionali, il rifiorire di una nazione che ha tutti i diritti di vivere finalmente lontana dal giogo del tiranno».

Lei non crede che alla fine per liberarsi di Gheddafi bisognerà farlo fuori? «Bisogna vedere come vanno le cose è presto per parlarne. Le dico però, sinceramente, che lui ha tentato di ammazzarmi e io ho tentato di ammazzarlo, questa è la verità. Non c’è mai stata intesa fra noi due, Gheddafi in passato mi ha offerto soldi e incarichi, ma io ho sempre rifiutato. Posso vantarmi di non avergli mai dato la mano. Per questo sono rimasto malissimo quando ho visto Berlusconi “baciargli l’anello”. Non potevo crederei. Ma la cosa che mi ha fatto più male è quella sua dichiarazione dove diceva che era addolorato per Gheddafi. Per Gheddafi? E non per il popolo che veniva trucidato, che ha bagnato col suo sangue le strade della Libia?»

Che rapporti ha con Berlusconi? «Più che altro li ho con il Quirinale».

Se il suo piano per liberare la Libia andasse in porto, coinvolgerebbe Europa ed America? «Naturalmente. E la Lega Araba. Ora non posso anticiparle i particolari, ma è questione di giorni e poi quando sarà consegnato ai vari governi, farò delle conferenze stampa per parlarne. Certo deve essere una mossa globale col consenso di tutti».

Nella Libia liberata, quando si formerà il nuovo governo, ne faranno parte quelli che attualmente rappresentano i ribelli? Perché in quelle fila ci sono bravissime persone, ma anche ex ufficiali di Gheddafi, ex suoi collaboratori, che si, hanno lasciato il colonnello per af­fiancarsi ai contestatori, ma restano comunque dei traditori. E chi tradisce una volta, può farlo ancora. «Chi ne farà parte sarà scelto con molta cura e con il consenso del popolo».

A lei, principe, ai suoi parenti sono stati confiscati molti beni in Libia, pen­sa che potrà tornarne in possesso? «Il palazzo dove sono nato era diventato una caserma ed è stato abbattuto. Altre proprietà, se rimarranno in piedi dopo questa guerra, dovrebbero tornare ai legittimi proprietari. So che è difficile crederlo, ma non è l’interesse che mi spinge a fare quello che faccio, anche mia figlia Alia che ha solo 26 anni non pensa ad altro e sta raccogliendo soldi per la Croce/Mezzaluna Rossa. C’è un sentimento di patria che solo chi lo prova profondamente può capirlo, che va al di là di ogni altro pensiero».

Per questo è stato fra quelli che ha preparato la rivolta del 17 febbraio, dopo che il 4 aveva lanciato un appello pubblico a Gheddafi per aperture e riforme necessarie per migliorare il benessere lei paese? «Nell’ultimo anno, forse perché si sen­tiva il fiato sul collo Gheddafi aveva ef­fettuato alcune liberalizzazioni nel campo del commercio e aveva anche restituito qualche proprietà confiscata, ma non ha tenuto conto del malcontento dei giova­ni che chiedevano democrazia, libertà, lavo­ro, un minimo di benessere. Erano stanchi del pugno di ferro. La risposta, lo avete visto tutti è stata una bruta – le repressione, fino a far bombardare con i caccia la sua gente. Da lì è iniziata la sua fine. Quando è stato necessario io sono volato subito qui a Washington, da Roma dove vivo, permettermi a disposizione del Dipartimento di Stato col quale ho ottimi rapporti, per fornire preziose informazioni ai dirigenti della politica estera americana».

Principe, lei vive fra Roma, Londra e Washington, ma di cosa vive? «Sono finanziere e investitore oltre che mediatore di commesse importanti. Grazie ai miei contatti con le famiglie reali del mondo arabo, ho favorito l’ingresso di molti gruppi italiani sui mer­cati del Golfo. E ho portato gli arabi a investire in Italia »

Mi tolga una curiosità principe Idris, che nulla ha a che fare con tutto quello che ci siamo detti. Chiamavano suo pa­dre Il “principe nero”, perché un appel­lativo cosi inquietante?«Ma non c’era niente di inquietante, lo chiamavano il “principe nero” perché era nero, il più scuro della famiglia. Tutto qui».

Anna Corradini Porta