Nuova Sardegna – 3 Aprile 2011

L’appassionato racconto di Giovanna Ortu, presidente dei profughi italiani della Libia

Cagliari. Padre di Bolotana, madre siciliana, città natale Tripoli, vive a Roma da quarant’anni. Classe 1939, Giovanna Ortu è l’inesauribile presidente dell’Associazione rimpatriati dalla Libia. Degli italiani cacciati da Tripoli e Bengasi, nel 1970. Allora furono espulsi in ventimila da Muammar Gheddafi, pochi mesi dopo il colpo di stato del tenentino berbero e la caduta di Re Idris. 
Corsi e ricorsi della storia. Adesso è il colonnello a rischiare. 
«Rischiare? Deve andar via, per il bene della Libia». 
Ha sete di vendetta? 
«Non vivo più l’età della rabbia. Il mio lutto l’ho elaborato da tempo seppure con molto dolore. Oggi sono qui a dire che questo è il Risorgimento di un popolo oppresso da una lunga dittatura». 
È la frase del presidente Napolitano. 
«Sì ed è un’immagine stupenda, meravigliosa che io, con molta umiltà, prendo in prestito». 
Risorgimento che va aiutato, ha detto ancora il Presidente. 
«Certo, è un nostro dovere stare al fianco di chi lotta in nome della democrazia. I morti di Bengasi, sono martiri della libertà. Basta, non possiamo lasciare i libici nelle mani di un tiranno che spara sulla gente con i cannoni e fa mitragliare le piazze dal cielo». 
Gheddafi è stato anche il suo aguzzino. 
«Io non l’ho mai conosciuto ma so bene quello che fa adesso e quello che ha fatto ai ventimila italiani, nell’estate del 1970. In una manciata di mesi, oltre quarant’anni fa, ci ha privato della dignità e di quello che avevano messo assieme in una vita». 
Racconti. 
«Al presente, come se fosse oggi. Mio padre, Giovanni Maria, emigra da Bolotana a Tripoli nel 1914, quand’è appena un liceale. Ha vinto il concorso per cancelliere di tribunale, sceglie la Libia, in Sardegna c’è poco lavoro. Lì si sposa con una ragazza siciliana di diciott’anni, Maria, mia madre. È figlia dell’allora direttore della Tirrenia trasferito a Tripoli dopo esserlo stato ad Alessandria d’Egitto».

Sfogli l’album. 
«A Tripoli nascono i loro tre figli, tutti ancora vivi: Nella, nel 1924, Tonino, 1934 e la sottoscritta, cinque anni dopo. Lì la mia famiglia strappa al deserto un’azienda agricola, splendida: ettari ed ettari di agrumi e ulivi. Lì sono rimasta fino a trentadue anni. Lì mia figlia Antonella, nata a Roma, ha vissuto fino a nove mesi». 
Ultima data conosciuta, a Tripoli: martedì 21 luglio 1970. 
«Ricordo bene il giorno della legge sull’esproprio, che colpiva italiani ed ebrei. È una mattina allegra, guarda caso festeggiamo il mio compleanno. La torta è sul tavolo, ci sono due bottiglie di champagne, comprate sottobanco, Gheddafi ha messo fuorilegge l’alcol. Prima delle candeline, all’improvviso, è un amico a farci sapere che il nostro mondo sta per essere spazzato via, come se niente fosse». 
Quale fu la reazione in Casa Ortu? 
«Restiamo tutti muti e scossi. La torta e lo champagne finiscono nella pattumiera e noi con loro. È stato quello il compleanno più amaro della mia vita: ha segnato l’inizio della nostra via crucis». 
Continui, anche se… 
«Anche se fa ancora male. Per noi dal 22 luglio fino a ottobre è una trafila di burocrazia ostile, vessazioni e persino perquisizioni corporali. Sono settimane terribili, in cui dimagrisco di tredici chili». 
Cosa accadde? 
«Le autorità libiche ci costringono a consegnare i nostri beni, dal primo all’ultimo, compresi gli orecchini che indosso. Un’umiliazione tra le lacrime». 
Cacciati perché? 
«Noi, i ventimila, allora fummo il capro espiatorio delle brutalità orrende compiute dal colonialismo. Da alcuni coloni degli anni trenta, non certo dalle nostre famiglie. Noi c’eravamo integrati e siamo rimasti in libia anche dopo la Seconda guerra mondiale». 
Espulsi perché “figli” del fascismo? 
«Dal 1951, primo anno del regno di Idris, all’avvento del Colonnello, la nostra vita in Libia era andata avanti bene. Non era a Tripoli ma in Italia che alcuni ci chiamavano fascisti, sbagliando». 
Il tempo vi ha concesso la rivincita. 
«Ripeto, non c’è rancore. Oggi c’è soltanto un tumulto di sentimenti. Per Gheddafi è finita un’epoca. Siamo alla chiusura del cerchio: è l’ora della democrazia».

Senza il colonnello. 
«Esatto. Altro non può esistere: i libici non vogliono la spartizione della loro terra». 
Gettiamo a mare un presunto amico storico dell’Italia. 
«Amico? Non direi proprio. 
Da italiana ripeto: siamo stati troppo accondiscendenti nei confronti di chi ci ha sempre ricattato con gli errori commessi dal primo colonialismo. Gheddafi lo ha fatto per quarant’anni, fino al trattato del 2008. È stato furbo e trasformista con gli occidentali: era una canaglia, poi c’è mancato poco che lo facessero santo». 
Esagerata. 
«No, da Roma e a Roma, quand’è stato in visita, ha preteso onori che non gli erano dovuti. Ha ottenuto sei corvette e mesi dopo con quelle ha sparato contro un peschereccio italiano. Ha ottenuto risarcimenti per cinque miliardi di dollari per i prossimi vent’anni, nonostante i conti l’Italia li avesse già chiusi col trattato del 1956. Allora lo Stato pagò cinque milioni in sterline, quattro miliardi in lire, più la consegna dei beni demaniali e la confisca del nostro patrimonio, 400 miliardi dell’epoca, tre miliardi, in euro, adesso». 
Doppio indennizzo, doppia beffa. 
«Esatto. Il raìs ha avuto tutto quello che voleva. Attenzione, nel 2008, noi profughi eravamo ben contenti che ci fosse stato un riavvicinamento fra le nostre due patrie. Non c’è piaciuto il resto». 
Cosa? 
«L’errore commesso da molti governi italiani, da Prodi a Berlusconi, che hanno sempre assecondato Gheddafi nelle bizzarrie, per poi considerarlo un interlocutore affidabile. Non siamo riusciti a smarcarci dal ricatto del colonialismo e poi da quelli del petrolio e dei clandestini». 
Sono i giochi di ruolo, negli affari esteri. 
«Affari compiuti senza equilibrio da parte dell’Italia. Lui con noi ha mostrato sempre i muscoli, lo Stato solo l’altra guancia». 
Baciamano compreso, quello del presidente del Consiglio Berlusconi. 
«Quello è stato un atto indegno e doloroso per noi». 
Facile dire perché. 
«Nel 2008, come nel 1970, la dignità dell’Italia e degli italiani è stata barattata sul mercato degli affari». 
Quali? 
«Ci sono alcuni documenti della Farnesina, oggi non più segreti, che dicono: quarant’anni fa le nostre famiglie furono lasciate alla loro sorte, nonostante un trattato internazionale ci consentisse di rimanere, per tutelare gli interessi dell’Eni e della Fiat». 
Nel 1970 capitò così e nel 2008? 
«Berlusconi ha commesso lo stesso errore, tre anni fa. Sì, purtroppo ha avuto un atteggiamento ossequioso che, nel frattempo, Gheddafi non si era certo meritato». 
Risultato? 
«Che non abbiamo fatto una bella figura, nonostante più volte al Colonnello abbiamo dato una mano per farlo riammettere nel club mondiale dell’Onu. Ripeto, in due occasioni, sempre sulla spinta del business, lo Stato italiano ha consentito al raìs delle libertà inimmaginabili». 
Quali? 
«Le sue scorribande italiane: tende, cavalli ed hostess». 
Gheddafi ora accusa Roma di tradimento. 
«Abbiamo sbagliato in passato, non sbagliamo adesso». 
Torniamo ai giorni nostri: la rivolta. 
«Al mondo occidentale chiedo di sostenere la protesta esplosa nelle città. Deve farlo prima che la guerra civile diventi guerra totale». 
L’Italia fa bene a partecipare alla missione? 
«Certo e aggiungo: l’Onu si è mosso con troppo ritardo». 
E se Gheddafi dovesse rivincere? 
«Non può succedere, non deve accadere. Altrimenti, sarebbe la fine per una delle mie due patrie, la Libia».

Umberto Aime