Il Tempo – 27 Marzo 2011

Dopo i libici, che da quarantadue anni erano in balìa di un tiranno sanguinario – come oggi, che facile! tutti riconoscono – gli italiani rimpatriati da Tripoli nel 1970 sono state le vittime dimenticate della tragedia. Cacciati dalla mattina alla sera e i loro beni confiscati da Gheddafi ma la storia di questa violenza inaudita e non udita è stata cancellata, come se l’espulsione di ventimila connazionali dalla terra in cui erano nati o cresciuti potesse essere un dettaglio. O peggio, un pedaggio da pagare in nome e per conto dei trisavoli che nel 1911 avevano colonizzato la Libia quando ancora non era la Libia.

Se invece il mondo libero, e soprattutto i governi del nostro Paese avessero dato a quel precedente ignominioso del 1970 il rilievo politico-diplomatico che meritava, se l’Italia e i suoi alleati avessero prestato attenzione a quel sopruso anti-italiano, non avremmo dovuto attendere né la bomba dell’aereo a Lockerbie (21 dicembre 1988, 270 innocenti ammazzati) né le persecuzioni e le torture ricorrenti alla sua gente dissidente per capire chi fosse Gheddafi. L’uomo che era salito al potere, oltretutto, con un colpo di Stato: anche nella scelta del mezzo si dovrebbe cogliere il fine che uno si propone. C’è da inorridire, allora, a vedere quanto, negli anni, i governi della Repubblica abbiano snobbato il grido di dolore degli esuli in patria. Esuli due volte: dalla Libia, la radice degli affetti, e dall’Italia, la madrepatria che si mostrava indifferente rispetto al dramma di massa. Al contrario, la politica nazionale s’incaricava non già di far valere le ragioni, anche diplomatiche, per sollevare la questione dell’espatrio violento nelle sedi internazionali preposte, a cominciare dalle Nazioni Unite, ma per confortare il dittatore che se ne era reso responsabile. Era in ballo un principio, nazionale e internazionale, di giustizia, non solamente le note questioni economiche e petrolifere, all’insegna delle quali le classi dirigenti hanno invece accettato ogni genere di sopraffazione. Compresa quello d’aver firmato un cosiddetto trattato di amicizia con chi s’era inventato persino la giornata dell’inimicizia anti-italiana. Trattato nel quale neppure in una piccola nota a piè pagina figurava un riferimento all’esodo dei nostri connazionali depredati d’ogni bene.

Si badi: quest’atteggiamento vile ha riguardato proprio tutti e senza eccezioni, perché ogni governo, nel tempo, pretendeva di «chiudere la controversia» con chi voleva mantenerla sempre aperta, e incurante del fatto che tale controversia fosse già stata conclusa negli anni Cinquanta con accordi internazionali nero su bianco. Ma pretendevano di chiuderla, tale istigata controversia, arrendendosi al punto di vista unilaterale e provocatorio della controparte, che già aveva fatto vedere di che pasta fosse fatto. Intendiamoci, c’è una ragion di Stato per tutti, e i vicini di casa, com’è noto, uno non se li può scegliere. Ma neanche i libici avevano scelto Gheddafi, mai avendolo votato, e soltanto sopportato per paura, anzi, per terrore o per convenienza di chi con lui condivideva violenza e privilegio. Adesso i rimpatriati dalla Libia potrebbero chiedere «riparazioni» e recriminare: «Visto che l’avevamo detto?». Quei connazionali che hanno sofferto, e che in larga maggioranza ormai hanno i capelli bianchi, oggi invece preferiscono dare pubblico sostegno ai libici che si battono per la libertà. Quarant’anni dopo, le vittime stanno dalla parte delle vittime, a conferma della vera e grande riconciliazione che gli italiani e i libici avevano fatto da tempo, nonostante quel bugiardo di Gheddafi e quei creduloni dei nostri governanti.

Federico Guiglia