Prismanews.net – 25 Marzo 2011

L’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia (AIRL) , riunisce 20mila italiani che, nel luglio 1970, furono espulsi dal Paese dal regime di Gheddafi, appena salito al potere. Una sede a Roma e una a Latina, precisano di non essere un club di nostalgici chiuso nelle proprie memorie ma una comunità moderna e dinamica, che ha saputo inserirsi con successo nella società italiana. Una grande famiglia, insomma, che ha conquistato ovunque posizioni di rilievo, ottenendo riconoscimenti e fiducia ai più alti livelli delle Istituzioni e della realtà nazionale italiana.

Alla luce del conflitto in atto in Libia, passato in queste ore sotto il comando della NATO, Prismanews ha rivolto alcune domande a Maria Laura Trovato , assistente personale del presidente dell’AIRL, Giovanna Ortu .

Dottoressa Trovato, la vostra Associazione si definisce “un osservatorio attento e consapevole della non facile realtà libica”. Qual è la vostra opinione sul conflitto di questi giorni? 
“Dal nostro punto di vista, in qualità di “cacciati” da Gheddafi, espropriati di tutto, ovviamente l’attuale situazione non può che causare dolore e preoccupazione. Non per la persona di Gheddafi, che consideriamo un dittatore sanguinario, siamo addolorati per il popolo libico, con il quale abbiamo sempre avuto rapporti cordiali sin da quando vivevamo in quella terra. La nostra Associazione ha continuato sempre ad avere rapporti con i libici, in un clima di affetto e simpatia reciproca. C’è stato sempre un ottimo feeling tra loro e noi, al punto che consideriamo la Libia la nostra seconda patria. Questa guerra ora ci addolora, e la nostra speranza è che tutto finisca presto e si riesca ad instaurare un governo democratico, in modo che i libici possano vivere in prosperità, visto che col petrolio che hanno possono vivere agiatamente tutti quanti”.

Ci racconta com’ è avvenuta, nei fatti, la vostra “cacciata” dalla Libia? 
“Noi siamo stati tra i primi, nel 1970, a subire i provvedimenti del Raìs che ci ha confiscato beni mobili e immobili per un valore di 400 milioni di lire dell’epoca (rivalutati a oggi 3 miliardi di euro!), costringendoci ad abbandonare le nostre case e gli amici libici con i quali eravamo cresciuti. La partenza dalla Libia è avvenuta in maniera traumatica: da un giorno all’altro ci è stato chiesto di fare i bagagli, è diventata una corsa contro il tempo per approntare tutti i documenti di espatrio. E lì nessuno ci aiutava ad andare via, ma ci pressavano perché andassimo via, abbiamo dovuto fare tutto da soli e pure in fretta. All’aeroporto alcune donne sono state sottoposte a visite ginecologiche per verificare, prima della partenza, che non avessero rubato gioielli”.

Secondo voi l’Italia ha fatto bene ad unirsi al conflitto o doveva percorrere la via diplomatica del dialogo?  
“Diciamo che al punto in cui la situazione è precipitata, unirsi al conflitto è stata un’azione doverosa perché la Libia è geograficamente di fronte a noi e abbiamo sempre avuto, con i libici, rapporti economici importanti. Spero tuttavia che l’Italia tenti in tutte le maniere di fermare questa strage di massa. Non possiamo prevedere, al momento, come andrà a finire, soprattutto in termini di vite umane e per questo seguiamo costantemente, e con apprensione, l’evolversi della situazione. Siamo lieti per tutti gli aiuti umanitari che l’Italia sta inviando al popolo libico”. 
Qual era il vostro status in Libia? Eravate residenti? 
“Eravamo residenti italiani rimasti in Libia, nonostante le guerre che si sono succedute nel tempo. Poi nel ’56, col Trattato Internazionale, l’Italia ha pagato i danni coloniali, e noi che eravamo i “nipoti” del colonizzatori, siamo rimasti a vivere lì, peraltro in buona compagnia di altri europei, ebrei, arabi, ecc; non c’era alcun clima di rivalità tra noi, vivevamo pacificamente. Mio padre, per farle un esempio, costruiva strade a Tripoli, tutti i suoi dipendenti erano arabi e lavoravano in un clima di fattiva collaborazione. Io ho fatto le medie e il liceo a Tripoli: non c’era nessun clima di astio o diffidenza nei nostri confronti”. 
E cosa è accaduto al vostro rientro in Italia? Come siete stati accolti? 
“Nient’affatto bene: eravamo tacciati come fascisti che tornavano con la coda tra le gambe. In più, le voci erano che in Libia ci eravamo arricchiti mentre – le ripeto – siamo dovuti tornare senza nulla, con a malapena i vestiti addosso e i documenti. Abbiamo perso tutto lasciando la Libia. E da quei giorni tragici, il nostro Governo non è stato mai in grado di varare una legge che ci consentisse di poter tornare in Libia: non siamo più riusciti a metterci piede , neanche per un breve soggiorno di turismo. Perché eravamo, e siamo ancora, schedati come colonialisti. E di quello che avevamo in Libia, ci è stata restituita solo una minima parte. Ecco perché la nostra rivendicazione è ancora oggi contro il Governo italiano, non quello libico”.

Esprimiamo un desiderio: fine della guerra, Libia libera e democratica…  
“Magari! Certamente sarebbe festa grande per noi e per loro: sono certa che se potessimo tornare lì, ci accoglierebbero con enorme affetto e cordialità. Nonostante tutto, lo avrà capito, il nostro amore per la Libia è rimasto intatto”.

Mafalda Bruno