La Stampa – 7 Marzo 2011

E’ buio pesto alle cinque del mattino, che in Italia sono le quattro. Sveglia di soprassalto. Colpi di Kalashnikov, o almeno sembrano tali. In pochi secondi siamo tutti pronti a muoverci, nel caso fosse necessario. Insomma, pronti a evacuare. Del resto si dorme vestiti ormai da più di dieci giorni. Dagli angoli delle finestre si vedono i traccianti in aria. Fa paura Tripoli perché sembra giunta l’ora fatale, la resa dei conti e trovandoci qui, con questi protagonisti, la resa che si annuncia potrebbe essere senza esclusione di colpi. Era atteso questo momento ormai da più di due settimane, da quel 17 febbraio quando è iniziata la rivolta in Cirenaica. Sì, anche a Tripoli si era sparato le prime notti, tra il 20 e il 22 febbraio – ma mai come questa notte -, poi, è vero, c’erano state le proteste del venerdì, all’uscita dalle moschee dove i fedeli erano andati a pregare, represse duramente, con morti e feriti. E le retate nelle case degli oppositori, e Internet che da giovedì ci ha lasciati. Ma in sostanza Tripoli continuava ad essere saldamente in mano a Gheddafi e alle sue milizie. E la città con i suoi due milioni e mezzo di abitanti rappresenta quasi la metà della popolazione della Libia. 
Dunque, colpi di Kalashnikov, poi quelli sordi delle pistole e quelli inconfondibili delle mitragliatrici pesanti poste sui gipponi. Addirittura, nel silenzio della notte, c’è chi riusciva a ricostruire da dove venivano sparati i colpi disegnando così una mappa della città che combatteva. 
I primi colpi sono partiti da Tajura, il quartiere ribelle protagonista delle proteste di questi giorni. Siamo in periferia, i colpi si avvicinano. Il lungomare, il porto, il quartiere Dhara dove si trovano alcune ambasciate, compresa la nostra. Le sparatorie si sentono anche verso Piazza Verde, la piazza della Rivoluzione, e poi dietro la Medina, l’hotel Corinthia. 
Per un’ora si va avanti con le stesse sequenze: come fossero fraseggi di sparatorie seguiti poi da silenzi, pause. Pochi secondi e via di nuovo con i colpi. Certi proiettili sembra che ti sfiorino, si fa attenzione a non sporgere il corpo, a ripararsi dietro le finestre e le mura delle scale. C’è un guardiano di un edificio vicino che impugna il Kalashnikov e si diverte a colpire come se fosse un bersaglio posto a terra. 
Ogni tanto il fragore degli spari viene interrotto dal passare di sirene e lampeggianti. Si vedono cortei di auto della polizia, gipponi carichi di miliziani. Le prime luci dell’alba. Strane sensazioni che devono essere messe a fuoco. Indizi di un qualcosa che non quadra. Una cantilena viene diffusa da un megafono, da un altoparlante. E poco dopo anche la preghiera del muezzin, come se nulla fosse. E poi quelli che erano traccianti si trasformano in fuochi d’artificio. Sono ormai le sette e passa del mattino. Un paio d’ore e qualcosa in più di sparatorie. Dietro il maestoso Corinthia, l’hotel di lusso dei maltesi, di fronte alla Medina, più che traccianti si vedono quelli che sembrano fuochi d’artificio. 
Ma come, siamo all’alba di domenica, che qui è come se fosse il nostro lunedì, inizio di settimana lavorativa, e si spara all’impazzata e poi si fanno esplodere fuochi d’artificio? Quale festa ci siamo persi? C’è qualcosa che non quadra. Lentamente diventano nitidi i contorni di questa scena sfocata. La televisione di stato annuncia che il Leader, Muammar Gheddafi, ha trovato una intesa con le più importanti tribù, c’è una tregua, si stanno riconquistando le città ribelli della Cirenaica e non solo: Tobruk, Raf Lanouf, Misurata. Può cadere anche Bengasi da un momento all’altro. Tutte notizie smentite poco dopo dai portavoce dei ribelli, del Consiglio nazionale libico che ha sede a Bengasi. 

La sonnolenta Tripoli è sveglia oramai. Dal tetto si vedono scene di tripudio. Cortei di centinaia di auto, di jeep, di monovolumi, di camioncini carichi all’inverosimile sono imbottigliati sul lungomare, in direzione Piazza Verde. Clacson e colpi di mitra o pistola sono la colonna sonora di questa domenica mattina. Dopo tre ore di sparatorie, la città impazzita si riversa per le strade. 
È vero, sicuramente sono i fedelissimi del raiss, che non fanno mistero di adorare il Colonnello come se fosse un mito vivente, baciando la sua immagine. Però colpisce questa prova di forza. Gheddafi è in grado di mobilitare la piazza anche all’alba di una domenica mattina. Anche se con la menzogna, colpisce questa capacità del raiss di fare propaganda, di essere il protagonista per nulla messo all’angolo degli avvenimenti. 
Lascia gli ormeggi un rimorchiatore stracarico di persone. Festeggia anche lui la vittoria, con la sirena assordante va avanti e indietro, di fronte al lungomare. La televisione di stato diffonde le immagini di Piazza Verde piena di bandiere verdi. 
Che prova di forza, riuscitissima, questa del Leader. Che minaccia: «Se cado io migliaia e migliaia di stranieri vi invaderanno». Altro che all’angolo. Il raiss sfida l’Occidente. Chi lo ha dato per sconfitto deve ricredersi. Venderà cara la pelle, Gheddafi. E lo ha dimostrato in questi giorni.

Guido Ruotolo