Il Corriere della Sera – 3 Marzo 2011

Le parole pronunciate da Gheddafi sull’Italia possono sorprendere il presidente del Consiglio, probabilmente convinto di avere stretto con il colonnello libico un rapporto infrangibile fondato sulla reciproca ammirazione e sugli interessi comuni. Non possono sorprendere chiunque abbia qualche familiarità con il trattamento che Gheddafi ha riservato all’Italia sin dal giorno in cui conquistò il potere a Tripoli nel 1969. 
Non vi è stato momento della sua lunga dittatura in cui il Colonnello abbia rinunciato a usare il colonialismo italiano come una piaga aperta della memoria nazionale. Se ne è servito per distinguersi da Idris, il re bonario e saggio che aveva stabilito rapporti cordiali con l’Italia, aperto il Paese all’Eni nel 1959, lasciato che gli italiani vivessero indisturbati e svolgessero attività utili per il suo Paese. Se ne è servito per dimostrare che nessuno meglio di lui incarnava l’orgoglio nazionale. Se ne è servito anche quando investiva denaro nelle imprese italiane, riceveva i ministri italiani nella sua tenda, stringeva calorosamente la mano dei nostri presidenti del Consiglio. Si potrebbe sostenere che nulla gli importava veramente quanto la possibilità di dire ai suoi connazionali, con parecchie forzature, che all’origine dello Stato libico vi erano le sofferenze e le umiliazioni subite durante il periodo coloniale. L’anticolonialismo e la denuncia delle colpe italiane sono stati lo zoccolo del suo potere, l’argomento retorico che gli consentiva di rappresentare se stesso come l’uomo che aveva liberato i libici dallo stato di soggezione morale e psicologica in cui avevano continuato a vivere durante il regno di Idris. 
Beninteso, questo non gli ha impedito di fare affari con l’Italia e con la sua maggiore compagnia petrolifera. Ma accusarlo di duplicità sarebbe sbagliato. Duplice è l’uomo che nasconde i suoi pensieri e le sue intenzioni. Gheddafi, invece, ha agito sempre su due piani egualmente visibili. Era pronto a trattare con l’Italia, ma non avrebbe mai smesso di usarla come la bestia nera del suo Paese, il nemico secolare della nazione. Ne abbiamo avuto una ennesima prova quando ha portato con sé, durante la visita a Roma, un veterano della resistenza anti-italiana e appiccicato sul bavero della sua giacca il ritratto di Omar el-Mukhtar, il leader cirenaico che il generale Graziani fece impiccare nel settembre 1931. È davvero sorprendente che questo nuovo attacco all’Italia coincida con una fase in cui il suo potere è traballante? Mai il «nemico italiano» gli è stato utile come in questo momento. Per certi aspetti l’ennesima sfuriata anti-italiana è un segno della precarietà della sua situazione. 
Potremmo alzare le spalle e compatirlo se non avessimo il sentimento di avere contribuito al suo disprezzo. Ho sempre pensato che l’Italia avesse un interesse, non soltanto economico, a seppellire il passato. Tutti i maggiori Paesi coloniali (la Francia in Algeria, la Gran Bretagna in India, la Spagna in Marocco) hanno sacrificato un po’ del loro orgoglio e riconosciuto le loro colpe. L’Italia e la Libia vivono nello stesso mare, hanno economie complementari, e la conflittualità permanente non può giovare né all’una né all’altra. L’accordo con la Libia è stato voluto da tutti i governi italiani. Ma sarebbe stato preferibile raggiungere l’obiettivo con lo stile di Giulio Andreotti, tanto per fare un esempio, piuttosto che con quello di Silvio Berlusconi. Dopo l’ultimo discorso di Gheddafi, il ricordo del suo trionfale viaggio a Roma diventa insopportabilmente penoso

Sergio Romano