Il Mattino di Padova – 2 Marzo 2011

Cari fratelli libici, vi chiamo fratelli perché sono nato in quella indimenticabile terra nel 1953 e lì sono vissuto fino al 1970, anno in cui Gheddafi ci cacciò via da quella meravigliosa terra. E lì ho lasciato il mio cuore. 
Mio papà arrivò in Libia nel 1928, lasciando Nola (Napoli) che aveva 10 anni, mia mamma arrivò in Libia prima dello scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939. Papà faceva l’agricoltore nella più bella zona di Tripoli, a Collina Verde, e gestiva un’azienda con agrumeti e oliveti. Contemporaneamente iniziò l’importazione di bestiame da macello, perché scarseggiava la carne presso le macellerie libiche. 
A Tripoli risiedeva anche una vasta comunità ebraica, e tutti vivevamo in armonia, con il massimo rispetto gli uni degli altri, mantenendo inalterate le nostre radici, culture e feste religiose. 
Si viveva in tranquillità, ci si aiutava a vicenda: tra arabi, italiani e ebrei, non ricordo nessun tipo di razzismo. 
Il vecchio monarca senussita Idris I amava gli italiani. Nonostante fosse stato umiliato dai nostri militari durante il secondo conflitto mondiale, aveva capito che noi coloni non rispecchiavamo affatto il colonialismo di stampo fascista, bensì eravamo ormai diventati parte integrante della società libica. 
Abitavamo alla periferia di Tripoli. Sono cresciuto con i bambini arabi, parlo tutt’ora l’arabo, più di qualche libico frequentava le scuole italiane. La Libia della mia giovinezza era un paradiso terrestre: duemila chilometri di costa, un mare cristallino, un clima caldo, una natura incontaminata, tramonti ed albe al limite del mistico, un deserto infinito, silenzioso, misterioso dove si percepiva quasi la presenza di Dio. 
Oggi vedendo Tripoli in tv ridotta a ferro e fuoco ricordandomi quanto bella fosse, a stento trattengo le lacrime. Era una città stupenda, un lungomare costruito dagli italiani, che per chilometri costeggiava un litorale fantastico. Le moschee con il muezzin che chiamava i fedeli alla preghiera, e le chiese italiane, con la nostra cattedrale, diventata sotto Gheddafi moschea a Nasser. 
Aveva il suo fascino Tripoli, i suoi odori, profumi, i suoi colori, con il mercato vecchio della casbah costruita dai turchi, Suk el Turk, la statua dell’imperatore romano Settimio Severo, che era nato in Libia. 
Quando Gheddafi salì al potere, favorì in maniera impressionante i militari, con dei stipendi da capogiro, creando una dittatura. Militari che tuttavia non avrebbero mai immaginato di dover sparare, un giorno, sui propri fratelli. 
Gheddafi ha trasformato una terra che era un paradiso terrestre in un inferno. Ha dimostrato di essere solo quello che già 42 anni fa, da certi suoi atteggiamenti, si prevedeva sarebbe diventato: un dittatore. Un despota che esordì umiliando gli stranieri, specialmente noi italiani, che avevamo reso quella terra un fiore del Nord Africa. 
Onore al popolo libico, quel popolo che sta morendo per la sua libertà. Ricordo la sofferenza che provammo lasciando la Libia nel 1970, nella maniera che tutti sanno. 
Tornerò in Libia! Tornerò ad onorare quei martiri che sono caduti sotto la ferocia dei cecchini di Gheddafi! Inshallah!

Antonio Stefanile Saonara