Il Venerdì di Repubblica – 7 Gennaio 2011

Silvio Berlusconi sorridente, Muammar Gheddafi radioso, fermi nell’istante in cui la stretta di mano, da saluto formale, diventa il gesto d’affetto di chi stringe al petto il polso di un amico. È l’immagine che un mattino è apparsa su una palazzina a pochi metri dalla caserma di Bab El Aziziya, la cittadella dove il leader libico ha piantato la sua tenda.

Sette piani di fotografia per suggellare pubblicamente quella che ormai da due anni è una vera amicizia, in un Paese dove, dal primo settembre 1969, è ammessa una sola immagine, quella di Muammar Gheddafi.

L’idillio fra i due inizia a Bengasi, il 30 agosto del 2008 quando, nell’edificio che ospitava il quartier generale del governo italiano ai tempi del colonialismo, seduti davanti a un’imponente scrivania in radica, firmano l’ «Accordo di amicizia, cooperazione e partenariato» che avrebbe regolato i rapporti fra i due Paesi. L’Italia finanzierà la realizzazione di infrastrutture sul territorio libico per cinque miliardi di dollari nell’arco di vent’anni. L’esecuzione delle opere sarà affidata a imprese italiane. Roma si impegna a realizzare alcune iniziative speciali tra le quali la costruzione di duecento abitazioni, l’assegnazione di borse di studio universitarie, la cura delle persone colpite dallo scoppio di mine, il ripristino del pagamento delle pensioni di guerra ai titolari libici, la restituzione di reperti trasferiti in Italia in epoca coloniale.

«La firma di questo trattato» dice Berlusconi «chiude definitivamente la pagina del passato». La penna in una mano, nell’altra la Venere di Cirene (scultura di Afrodite restituita dopo 95 anni): così il premier si guadagna la simpatia e la stima di Gheddafi e del suo intero popolo. La tv di Stato manda e rimanda le immagini del primo e unico europeo che abbia pubblicamente presentato «le scuse del suo governo per il periodo coloniale».

La scrivania dell’accordo ora ha trovato una sua collocazione nel Museo di Tripoli in piazza Verde. Quello stesso in cui, fra la biglietteria e lo shop dei souvenir straripante copie del Libro Verde di Gheddafi, ora campeggiano due poster retroilluminati. In uno c’è Silvio Berlusconi con Muammar Gheddafi. Nell’altro, Massimo D’Alema -lui nel ’99 restituì la Venere delle Terme trafugata dall’antica Leptis Magna – con il colonnello. Due immagini esposte con un tale equilibrio di colori, dimensioni e forme che sembrano suggerire all’ignaro visitatore: «Questi signori meritano la mia stima».

Ma il Trattato con il quale l’Italia ha chiuso il capitolo del colonialismo – assicurandosi in cambio la fine del flusso mi­gratorio clandestino attraverso il Canale di Sicilia – non è solo farina del sacco del Cavaliere. «Il mio amico Berlusconi ha concluso oggi quello che i suoi predecessori Prodi, Dini e D’Alema avevano iniziato con la firma del primo accordo nel lontano ’98». Lo ricordava il colonnello a Bengasi nel 2008. Ma se a D’Alema va l’onore di un poster retroilluminato, a Berlusconi va la gloria delle prime pagine dei quotidiani governativi a ogni suo viaggio in terra libica. Sei visite di Stato, intervallate da due trasferte in Italia di Muammar Gheddafi e del suo numeroso seguito. Dal 2008 al 2010 un totale di otto incontri, con una media di uno ogni novanta giorni in cui la riconoscenza di Gheddafi non si limita al dono di cammelli, alla stampa di cartoline raffiguranti la loro stretta di mano, all’annuncio di inserire il volto dell’amico nella filigrana dei futuri passaporti libici. Il colonnello, che di propaganda è un esperto, regala al premier occasioni di visibilità internazionale con il gioco del trovarsi «al posto giusto nel momento giusto», come nella visita del 27 marzo 2010.

L’occasione è data dalla riunione della Lega Araba. Siamo in piena «crisi dei visti», conseguenza della guerra diplomatica libico-svizzera innescata dall’arresto di Hannibal Gheddafi a Ginevra nell’estate del 2008. La Libia non rilascia più visti ai cittadini europei. Miguel Angel Moratinos, ministro degli Esteri spagnolo, è a Sirte. Dopo una serie di incontri, la Commissione Ue annuncia la cancellazione della black list che impediva a 188 personalità libiche di entrare nei Paesi Schengen e la Libia annuncia «la fine del blocco». Berlusconi è a Sirte e Gheddafi gli regala buona parte del merito. Questo gioco ha il suo culmine il 13 giugno 2010, quando, in una visita lampo priva di motivazione ufficiale, Berlusconi va a Tripoli, proprio nel giorno in cui là si sta negoziando la firma di un accordo che regoli la questione con la Svizzera e porti alla liberazione di Max Goeldi, un uomo d’affari elvetico finito nelle maglie della crisi e detenuto in carcere. L’uomo è liberato.

Vola a Tunisi dove trova ad attenderlo i ministri svizzero e spagnolo partiti dopo un incontro con il leader libico sotto la sua tenda. Berlusconi parte per ultimo e Gheddafi gli regala un «grazie Silvio». Grazie per una crisi già risolta. Ma la riconoscenza per aver aiutato la Libia a uscire dall’embargo, durato dal 1986 al 2004, è più forte di ogni altra cosa.Oggi vedi giovani per strada vestire Armani e Prada. Ascoltano Ramazzotti e Nek, partono per viaggi di nozze in Italia, acquistano mozzarella e parmigiano reggiano, cappelletti e panettoni. E se chiedete loro di Berlusconi, arrivano a proporre uno scambio: «Voi vi prendete la Guida, Gheddafi, e a noi ci date Silvio».

L’Italia importa dalla Libia il 25 per cento del suo fabbisogno di petrolio e il 33 di quello di gas. L’Eni ha visto allungarsi le concessioni di altri venticinque anni e la nostra ex quarta sponda ha ottenuto partecipazioni in Eni e Unicredit, ha finanziarie che guardano a Telecom, Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali e usa l’amico Berlusconi come megafono delle richieste all’Europa. L’ultima: cinque miliardi di euro l’anno per contrastare l’immigrazione clandestina.

Francesca Spinola