Il Tempo – 28 Agosto 2010

Per qualche giorno il Cavaliere non sarà più il Cavaliere. Il titolo passa a Muammar Gheddafi, che arriva a Roma con una squadriglia di cavalieri e trenta cavalli arabi per celebrare il secondo anniversario del Trattato di amicizia tra Italia e Libia. L’ospite pianterà l’inseparabile tenda non più a Villa Pamphili, come fece nella visita dell’anno scorso, ma presso la residenza del suo ambasciatore.

Seguiranno eventi alla caserma dei carabinieri Salvo D’Acquisto di Tor di Quinto e mostre fotografiche, non si sa se anche quest’anno al Cavaliere di Tripoli sarà riservato un trattamento da stella di Hollywood. Le poche notizie che filtrano sulla sua galoppata romana, lascerebbero intendere che il circolo degli adulatori avrà qualche difficoltà a strappargli l’autografo, perché l’avvenimento – dicono – è stato organizzato con maggiore sobrietà.

Ecco, ci risparmino almeno gli osanna: il colonnello Gheddafi non è Obama, né Lula, né Mandela. Che il contenzioso con l’Italia da lui aperto e dilatato dovesse essere chiuso una volta per tutte, non ci sono dubbi. Anche se c’è modo e modo di chiudere i contenziosi. Che il Trattato rappresenti un nuovo inizio nei rapporti complicati tra i due Paesi, non è solo un auspicio di amicizia ritrovata, e peraltro mai perduta, fra le popolazioni, ma anche un atto lungimirante di interesse nazionale. E poi “uno i vicini non se li può scegliere”, come disse una volta Giulio Andreotti, riferendosi proprio al dirimpettaio in Libia. Ma il tappeto rosso no. Al contrario, proprio grazie alla nuova era che si è spalancata tra Roma e Tripoli, ora sarà più facile far valere quella dignità nazionale che per quarant’anni è stata ignorata dopo la cacciata dei ventimila nostri connazionali dalla Libia e dei loro beni confiscati nel 1970. A proposito: perché essi o i loro familiari (dati i tempi, molti rimpatriati sono nel frattempo morti), non sono stati ancora risarciti secondo giustizia ed equità? Perché l’Italia “riscoperta” da Gheddafi non pone la questione con amichevole franchezza? Adesso può farlo, adesso deve farlo.

Intendiamoci, non siamo così sciocchi da non capire che la corsia preferenziale accordata alle imprese italiane, con tutti i vantaggi che ricadono anche a beneficio dei cittadini italiani, sia più importante dei quattro spiccioli ancora reclamati dagli italiani di Libia. Ma un’ingiustizia non cessa di essere tale solo perché nel frattempo, costruiremo in Libia la strada più bella dell’Africa. D’altronde, accordi riparatori in questo senso sono già stati realizzati, Italiani e libici hanno restaurato insieme il cimitero cattolico di Tripoli: per quanto bizzarro sembri e sia il Cavaliere libico, con lui ragionare si può. Ragionare su tutto, quindi: investimenti e gesti simbolici, immigrazione e umanità per gli immigrati, convegni storici e mostre archeologiche.

Ma pure ragionare sugli italiani che in Libia sono nati o cresciuti, e che tutto hanno perso all’epoca dell’espulsione da lui decretata. C’è un importante precedente che mostra quale possa essere il nuovo spirito tra nuovo amici. Ricordate quando, non si sa se per un equivoco o per un dispetto, le autorità libiche non volevano che le Frecce Tricolori firmassero con il Tricolore il cielo di Libia? Il comandante delle Frecce disse, semplicemente, di no: “Senza il Tricolore, le Frecce non volano”. Finì come doveva finire, con verde, bianco e rosso che si stagliava nell’azzurro di Tripoli. Ecco un piccolo, grande esempio di quella dignità nazionale che vale sempre.

Federico Guiglia