La Stampa – 16 Febbraio 2010

Dalla bolgia dell’aeroporto di Tripoli, dove le autorità libiche hanno bloccato tutti i passeggeri provenienti dall’area Schengen, filtra un solo aggettivo: «Estenuante». Il console generale d’Italia, la signora Francesca Tardioli, riferisce di «difficoltà trovate da diversi passeggeri europei». Sono stati almeno sessanta gli italiani rimasti impigliati nelle maglie del capriccioso dispositivo dei libici: 10 alla fine li hanno respinti, 52 sono passati. Il personale diplomatico, però, e la stessa Tardioli, hanno assistito per tutta la notte a scene di confusione e di dubbio. Sia a quelli ammessi, sia ai respinti non è stata fornita alcuna spiegazione. 
A sentire di quel caos a Tripoli, ci sono però alcuni italiani che hanno sorriso. Amaramente. «Quell’uomo ci ha abituati ad aspettarci davvero di tutto», scrolla le spalle la signora Giovanna Ortu, che è la presidente dell’associazione italiani rimpatriati dalla Libia e che con Gheddafi gioca una partita di nervi da quasi quarant’anni. La signora Ortu aveva trent’anni, nel 1970, quando il Colonnello decise d’improvviso di cacciare tutti gli italiani residenti in Libia. «Di colpo fu il caos. Non si capiva più niente. Ci bloccarono i conti correnti; e così non avevamo nemmeno gli spiccioli per fare la spesa. Poi capimmo che non avremmo potuto portare niente. E ricordo le scene umilianti delle perquisizioni prima di farci entrare in ambasciata: temevano che nascondessimo l’oro e lo portassimo al sicuro». 
Ci furono altre perquisizioni anche prima di riuscire a salire sull’aereo che li avrebbe portati in Italia: sani e salvi, ma poverissimi. E però la signora Ortu, pensando a quei manager o ai semplici turisti bloccati in aeroporto per un capriccio del leader con il turbante, ricorda ancora l’ansia per salirci, su quel benedetto aereo. «Non riuscivamo a ottenere il nullaosta per la partenza e ci sentivamo ostaggi a casa nostra. All’epoca eravamo dei piccoli proprietari terreni; il decreto di requisizione ci portava via tutto, non avevamo più nulla, eppure non ci lasciavano partire. Finché non capimmo che mancava all’appello un vecchissimo furgoncino, un ferrovecchio che noi nemmeno consideravamo più, e invece, siccome risultava dall’elenco delle proprietà, loro pensavano che lo tenessimo nascosto. Per fortuna, in un modo o nell’altro riuscimmo a portarlo e ci lasciarono liberi». 
La rivista «Italiani d’Africa», il bollettino dell’associazione, sta per ripubblicare un articolo di Igor Man. La professoressa Ortu lo rilegge con trepidazione. «Erano – scriveva il Vecchio cronista – giornate convulse; gli italiani importanti e gli italiani umili salivano e scendevano pressoché ogni mattina le scale della nostra ambasciata, ma il povero ambasciatore Borromeo non aveva risposte soddisfacenti da dare ai mille angosciosi interrogativi che poi si riducevano a una domanda sola: che fine faremo?». 
La professore Ortu, a sentirlo, si commuove: «Andò proprio così. Bravissimo Igor Man a raccontare la nostra angoscia».

Francesco Grignetti