Corriere Fiorentino – 16 Ottobre 2009

«Un giorno si inventarono la tassa sul balcone, quello dopo una tassa sulla porta d’ingresso, se sporgeva sulla strada, un altro pure la tassa sul cane… Ore e ore di fila agli sportelli solo per ‘‘documentare” di non aver mai avuto cani in famiglia… Dovevamo capire che aria stava tirando, ogni giorno la radio annunciava nuove vessazioni a cui noi italiani dovevamo sottostare».

Francesco Chirchirillo oggi ha 60 anni, vive a Firenze, e ieri pomeriggio è andato all’inaugurazione della mostra L’occupazione italiana della Libia. Violenza e colonialismo. 1911-1943 a Palazzo Medici Riccardi. È nato a Tripoli, suo padre era nato a Bengasi e «parlava l’arabo come prima lingua, prima ancora dell’italiano», e il nonno siciliano trasportava merci tra la Tunisia e la Libia già dal 1898. «Insomma, non si può dire che fossimo ‘‘integrati”, come si dice oggi, perché la comunità italiana è sempre stata separata dai libici, ma quasi». Francesco Chirchirillo faceva il geometra per una compagnia petrolifera americana e lavorava nel deserto. Con il primo stipendio, a pochissimi mesi dalla cacciata, «mi comprai la Cinquecento ». Ma non ebbe grandi occasioni per guidarla: aveva solo 20 anni quando con decreto del colonnello Ghed­dafi improvvisamente divenne un cittadino «indesiderato». Ne doveva compiere 21 quando fu cacciato, come tutti gli italiani, una mattina presto, svegliato di soprassalto. «Mi misero su una nave alle 2 del pomeriggio, all’imbarco ci sequestrarono alcune casse e a mio padre tolsero l’orologio direttamente dal polso dopo avergli portato via tutto». Eppure, Francesco Chirchirillo, come tanti italiani che hanno vissuto quella dolorosa esperienza, la Libia ce l’ha nel cuore. Quando ne parla, quando ricorda, non può fare a meno di commuoversi. «Mi scusi un attimo, fa male, fa ancora male, a quarant’anni di distanza, certe ferite non si rimarginano». Ce l’ha nel cuore, nella memoria: «Ho nostalgia dei miei 20 anni, della terra che ho lasciato ma non di quella che potrei trovarci oggi». Ma quando la commozione cede il passo, torna su prepotentemente la rabbia: «Vorrei tornarci, un giorno, anche solo per poter venire via ancora una volta e dire di averlo fatto di mia spontanea volontà perché quella non è più la mia terra, e non perché mi hanno buttato fuori».

GLI «INDESIDERATI» – Di quegli italiani che nel 1970 si svegliarono «indesiderati» (questo il termine del decreto di Gheddafi con cui si definivano gli italiani a partire dal 1969), a Firenze vivono cinque famiglie. Per qualcuno di loro, ieri sera a Palazzo Medici Riccardi, più che un amarcord è stata una «brutta sorpresa», qualcosa contro cui «protestare». Mauro Annese , 72 anni, è nato in Libia e si è sposato con una fiorentina. Per questo oggi vive a Firenze. Di fronte alle fotografie in mostra è visibilmente irritato: «Questa è una mostra di sinistra e parla solo delle efferatezze degli italiani, non è imparziale, disconosce tutta una parte di storia, quella della generazione di mio padre che a partire dagli anni Trenta ha contribuito a costruire quel paese dal nulla. Avrei voluto manifestare insieme ad altri tripolini fiorentini davanti al palazzo e spiegare bene come stanno le cose». Non ha fatto alcuna protesta, in compenso però è entrato a Palazzo Medici Riccardi armato di tutto punto di cartoline che mostrano una Tripoli bellissima, «quella che abbiamo costruito noi italiani, perché si capisca che non ci sono state solo le torture e le violenze durante il fascismo, ma c’è stato anche altro, dopo, quando fino all’avvento di Gheddafi la vita era bella e tra noi, i libici e gli ebrei c’era grande simpatia, si lavorava tutti insieme senza pregiudizi, con grande rispetto reciproco e nessun astio, e per 30 anni non abbiamo mai avuto problemi». Guardano le foto, sfogliano i libri e i documenti che si sono portati dietro, come pezzi di memoria. E tutti, come anche Vittorio Lattanzi e Claudio Tascone , anche loro fiorentini reduci della «cacciata» del ’70, sono concordi su una cosa: «Non ci vorremmo più tornare neanche se Gheddafi volesse, perché ce l’ha distrutta la nostra Tripoli, l’ha riempita di grattaceli e orribili palazzoni, non la riconosceremmo più, soprattutto il lungomare… quel bellissimo, quasi da Costa Azzurra, lungomare con le palme». «Gheddafi aveva la necessità di implementare le funzioni portuali e la bellezza del lungomare è stata una delle prime ‘‘vittime” della sua ascesa al potere» racconta Tascone. «Qualcuno è tornato, più che altro per turismo — continua Annese — Ma io no. I miei sono ricordi molto felici, con mia moglie abbiamo vissuto lì per 7 anni…» e, aggiunge Lattanzi, «anche se mi dessero la possibilità di tornare non ci andrei: Tripoli è stata distrutta dal cemento, vedere delle dune al posto degli ulivi piantati da mio padre, portati direttamente dalla Toscana nel 1926, e frutto di 44 anni di lavoro… No, preferisco i bei ricordi invece che trovarmi davanti agli occhi uno sfacelo».

IL GIORNO DELLA «CACCIATA» – Anche lui ricorda il giorno della «cacciata»: «Fortunatamente noi fummo rimpatriati in aereo e non in nave, ma fu ugualmente umiliante per le perquisizioni, specialmente quella di mia madre a cui delle soldatesse (prese in prestito dall’Egitto perché in Libia non ce n’erano) rubarono molti gioielli». Suo padre faceva l’olio. «Era un gran olio! Eravamo milanesi di famiglia ma mio padre mi mandò a studiare agraria a Firenze perché qui la facoltà era specializzata nel campo degli ulivi. D’accordo, furono fatte brutte cose durante l’occupazione ma la mia generazione ha lavorato e prodotto ricchezza per la Libia e i libici, Gheddafi non può fare di tutti gli italiani un fascio: il nostro olio era consumato dai libici stessi, e abbiamo anche portato macchinari all’ora di avanguardia dalla Veraci di Firenze». Sono tornati in Italia senza niente, espropriati di tutto. E se c’è chi, come Mauro Annese, sospira e pensa, «se mio padre avesse venduto tutto quando le cose cominciarono a peggiorare, oggi sarei miliardario!», c’è anche chi ha messo da parte il rancore. Uno è l’ottantunenne Claudio Tascone che si definisce «più che italiano, sono un uomo di mondo, e infatti il mondo l’ho girato tutto». Lui è più propenso a chiudere i conti con il passato. Anche se suo nonno «ha realizzato dal niente una grande azienda agricola, un impianto di irrigazione, perfino una chiesa in collina», Tascone vuole lasciarsi alle spalle le polemiche, il colonnello Gheddafi, l’esplusione, e sorriderci sopra: «La Libia ci ha cacciato ma l’Italia non ci ha accolto, non c’era neanche un cane all’aeroporto, sono tornato con una mano davanti e una di dietro (e 20 dollari scampati alla perquisizione perché nascosti molto bene!) mentre prima dirigevo una grande trading company libico-svizzera, ma oggi i miei sentimenti sono in aggiornamento: è giusto ormai fare un accordo con quel gran furbacchione di Gheddafi, sarebbe assurdo continuare per altri cento anni un contenzioso inutile. Meglio chiudere alla svelta i conti in sospeso con un individuo come questo, con fermezza ma senza manifestazioni emotive». Neanche lui tornerà in Libia. «La conosco palmo a palmo, ci tornerei solo come cane sciolto, senza rivolgermi a un’agenzia di viaggi… Verso il popolo libico ho un sentimento di amicizia, mi rammarico solo di non poter abbracciare di nuovo alcuni miei ex dipendenti. Nessun rancore, sono un uomo di mondo».

Edoardo Semmola