Il Corriere della Sera – 28 Agosto 2009

Tutti e due erano contrari alla conquista e organizzarono manifestazioni contro la partenza delle reclute Gheddafi ha trattato a lungo l’ Italia come un nemico secolare, ma i rapporti di affari tra i due Paesi ci sono sempre stati Quando Mussolini e Nenni furono processati insieme per la Libia

La conquista della Libia nel 1911 disegnò una nuova e paradossale geografia politica italiana. L’ impresa piacque ai nazionalisti di Luigi Federzoni, a molti intellettuali de La Voce di Giuseppe Prezzolini, al poeta Giovanni Pascoli, al «vate» Gabriele D’ Annunzio, al Corriere della Sera di Luigi Albertini, a La Stampa di Alfredo Frassati. Piacque anche a parecchi diplomatici, a qualche sindacalista rivoluzionario e ai socialisti riformisti. Ma non, anche se per ragioni diverse, a Gaetano Salvemini, a Benito Mussolini, a Pietro Nenni e a Luigi Bollati, ambasciatore e segretario generale del ministero degli Esteri. Salvemini scrisse che la Tripolitania e la Cirenaica erano uno «scatolone di sabbia». Il socialista Mussolini sostenne che era un Paese povero dove il governo avrebbe sprecato denari di cui sarebbe stato meglio fare uso in Italia, e si comportò di conseguenza inscenando una sorta di rivolta popolare contro la partenza delle reclute. Il repubblicano Nenni (sarebbe divenuto socialista qualche anno dopo) guidò 3.000 persone alla conquista della stazione di Forlì per impedire il passaggio dei treni. E Luigi Bollati, secondo i suoi collaboratori, fu «freddo e riservato». Fra i suoi tanti paradossi la guerra ebbe persino l’ effetto di creare un rapporto di simpatia e di amicizia fra due uomini che dieci anni dopo si sarebbero duramente combattuti. Mussolini e Nenni vennero processati per direttissima, condannati e «alloggiati» insieme per qualche mese nel carcere di Bologna. Ancora più paradossale, per molti aspetti, è l’ atteggiamento dell’ uomo che decise la conquista e dichiarò guerra alla Turchia. Giovanni Giolitti fu un colonialista algido, scettico, distaccato. S’ imbarcò nel conflitto perché la Francia si stava impadronendo del Marocco e i due vilayet turchi dell’ Africa settentrionale (Tripolitania e Cirenaica) erano ormai le ultime poltrone rimaste libere in un teatro dove francesi e inglesi avevano conquistato i posti migliori. Vinse, ma non volle mai servirsi della vittoria per soffiare sul fuoco del nazionalismo e della retorica patriottica. E fece tesoro di quella esperienza per raccomandare, alla vigilia della Grande guerra, una politica di neutralità a cui rimase coerentemente fedele sino alla fine del conflitto. Durante le operazioni in Libia aveva capito che l’ esercito disponeva di una limitata capacità d’ intervento e che molti generali non erano all’ altezza della situazione. Era convinto che l’ Italia, nel 1915, non fosse in grado di affrontare una prova molto più severa di quella che aveva superato nel 1912. Le preoccupazioni di Giolitti furono confermate dagli avvenimenti. L’ Italia vinse la guerra di Libia a tavolino ma dovette scontrarsi con la guerriglia dei beduini in Tripolitania e la resistenza meglio organizzata di una forte congregazione religiosa, la Senussia, in Cirenaica. Durante il conflitto europeo, gli effettivi ridotti delle truppe italiane dovettero attestarsi sulla costa e limitarsi al controllo delle principali città. La riconquista cominciò prima dell’ avvento del fascismo, quando il ministro delle Colonie era Giovanni Amendola e il governatore a Tripoli Giovanni Volpi, l’ industriale finanziere che aveva partecipato ai negoziati di pace nel 1912. Le cose andarono bene in Tripolitania, male in Cirenaica dove le truppe italiane dovettero battersi contro l’ uomo ritratto nel «santino» che il colonnello Gheddafi si è cucito sul petto durante la sua recente visita in Italia. Si chiamava Omar el Mukhtar e fu un valoroso combattente a cui gli italiani, dopo la sua cattura, avrebbero dovuto rendere l’ onore delle armi. Ma il comandante della spedizione era Rodolfo Graziani, un soldataccio brutale e privo di qualsiasi virtù cavalleresca che aveva deciso di trattare il nemico sconfitto come un criminale e un traditore. La riconquista non fu più dura e spietata delle numerose campagne con cui altre potenze coloniali riconquistarono territori perduti. I francesi in Algeria e in Marocco, gli inglesi in Egitto, nel Sudan e in Sud Africa, gli spagnoli nei loro possedimenti marocchini e i tedeschi nella terra degli herrero non furono meno spietati degli italiani. Ma l’ impiccagione di Omar el Mukhtar fu contemporaneamente un crimine e un errore politico. Il governatorato di Italo Balbo, dal 1934 al 1940, fu alquanto diverso e segnato da avvenimenti notevoli sul piano politico e sociale. Balbo fu un costruttore e un organizzatore. Esiliato in colonia dalla gelosia di Mussolini, fece della Libia una sorta di principato dove egli regnava, come il duca d’ Este nella sua Ferrara, circondato e adulato da una piccola corte. Ma la visita di Mussolini nel 1937 fu un successo che l’ Italia, con una diversa politica, avrebbe potuto sfruttare. E l’ arrivo di 30.000 coloni in due successive spedizioni (1938 e 1939) fu per molti aspetti, insieme alle bonifiche e alla costruzione di nuove città nella penisola, il New Deal italiano. Ucciso per un errore dalla contraerea mentre rientrava a Tripoli sul suo aereo dopo una ispezione del fronte, Balbo ebbe la fortuna di non vedere né la partenza di molti italiani nel 1942 né la perdita della Libia nel 1943. Ma sarebbe stato lieto di apprendere che i coloni erano rimasti fedeli alla loro nuova patria. Nel 1947, sommando quelli che erano rimasti e quelli che erano tornati, la colonia agricola italiana ammontava a circa 15.000 persone. Molti poderi vennero venduti negli anni seguenti, ma i rapporti degli italiani con re Idris, dopo la costituzione del regno di Libia, furono complessivamente felici. Nel settembre del 1969, quando Gheddafi prese il potere, gli italiani erano 24.988. Di questi 6000 partirono subito. Di quelli che rimasero 1500 erano agricoltori, 3000 impiegati in imprese italiane, gli altri piccoli industriali, commercianti, artigiani. Partirono dopo il decreto del 21 luglio 1970 con cui il governo rivoluzionario confiscò le loro terre (40.000 ettari) e le loro proprietà immobiliari. Comincia da quel momento una specie di tragicommedia. Gheddafi non perde occasione per trattare l’ Italia alla stregua di un nemico secolare e di servirsi del passato coloniale per cementare il sentimento nazionale di un Paese che non aveva, sino alla conquista italiana, alcuna identità storica. Ma gli affari sono un’ altra cosa. Il petrolio, scoperto sin dagli anni Trenta, diventa la base di un accordo con l’ Eni che continua, fra alti e bassi, sino ai nostri giorni. Il diagramma dei rapporti politici italo-libici sembra quello di un sismografo, ma questo non impedisce all’ Italia di essere il maggiore cliente e il maggior Paese fornitore. I coloni cacciati nel 1970 non possono tornare neppure per deporre un mazzo di fiori sulle tombe dei loro morti, ma si forma in Libia, nel frattempo, una nuova colonia italiana composta da tecnici, professionisti, rappresentanti di commercio, dirigenti d’ impresa. Non basta. Come il partito della guerra, nel 1911, fu costituito da una variopinta coalizione di persone provenienti dalla destra e dalla sinistra, così il partito della conciliazione, in questi ultimi anni, ha rappresentata un’ area della politica italiana che comprende Lamberto Dini, Romano Prodi e Silvio Berlusconi. La migliore rappresentazione possibile dei rapporti dell’ Italia con la Libia (e viceversa) è nei versi in cui due poeti romani, Ovidio e Marziale, descrissero gli amori difficili: non posso vivere né con te né senza di te.

Sergio Romano