La Repubblica – 14 Giugno 2009

Non è possibile che la diplomazia italiana non prepari e non governi una visita di Stato, non ne contenga gli eccessi pittoreschi, non concordi forme e contenuti degli interventi. Nonè possibile che la diplomazia italiana spinga l’ accattonaggio di Stato sino a lodare gli estremismi di Gheddafi che, imbottito di dollari grazie al petrolio, nell’ Aula Magna della Sapienza, dopo averci generosamente perdonato, ci ha spiegato che «bisogna capire le ragioni del terrorismo». Le ragioni cioè dei macellai che sgozzano, delle bombe nelle stazioni, delle stragi nei centri commerciali. Insomma, non è Gheddafi che ci indigna ma è la nostra diplomazia che ci mortifica. Perché lo facciamo? Nessuna superiore ragion di Stato , nessun rimpatrio di migranti, nessun bisogno energetico consentono infatti di perdere faccia e coscienza permettendo a un dittatore, che ha impiegato la vita a finanziare e ad armare i killer di tante orribili imprese terroristiche, di equiparare, proprio nel nostro paese, gli Stati Uniti a Bin Laden. È vero che il nostro governo, al quale sempre più piace fare l’ amico dei nemici e il nemico degli amici, ci ha abituati alla “diplomazia del sorriso”, vale a dire alla politica estera degli ammiccamenti e delle battute, delle pacche sulla spalla e delle gag al limite della licenza e della decenza, ma persino quel vestito con il quale Gheddafi si è presentato al Quirinale esprime, ancor più della vanagloriosa aggressività dell’ ospite, la sostanziale impotenza della nostra diplomazia. E non solo perché è proprio così che il cinema abbiglia i satrapi degli stati centro africani, con le foto appuntate sul petto e le divise colorate e superaccessoriate che disonorano i soldati di tutto il … mondo civile e ridicolizzano la professione delicata dei colonnelli. Oggi i militari non esibiscono nulla, sono esperti di geopolitica, storiografi di qualità, ingegneri sobri misurati ed equilibrati, insomma sono gli ultimi a voler fare quello che sono chiamati a fare: la guerra. Gheddafi a Roma non somiglia a un militare, ma a una parodia del vigile urbano in grande spolvero. È l’ africano come se lo immaginano i leghisti. Pur di cacciare gli immigrati da Vicenza, i nostri xenofobi padani cedono Roma, i suoi giardini e le sue università a un beduino in ghingheri. 
Gheddafi che tiene lezioni di alta politica a Palazzo Giustiniani e nella nostra più importante accademia è in questo senso il trionfo del ministro dell’ Interno Maroni: la politica estera asservita agli umori dei bottegai di Vigevano. E sebbene non ci sia memoria di un set cinematografico altrettanto pittoresco, il rettore Luigi Frati, medico specialista, ha trovato nell’ esibizione di Gheddafi «spunti di grande interesse». E il presidente del Senato Renato Schifani vi ha letto «una pagina importante» e già pensa di invitarlo di nuovo. Solo il ministro degli Esteri Franco Frattini ha ammesso che, perbacco, «non si può essere d’ accordo su tutto». Rimane da capire su che cosa è d’ accordo Frattini con Gheddafi, quali sono gli spunti di grande interesse, e perché questa esibizione sarebbe una pagina importante. Ecco: se si tratta di umorismo è umorismo nero, se si tratta di diplomazia è diplomazia spudorata. Ma forse il politologo Frati, lo studioso Schifanie il Marco Polo Frattini si riferiscono alla carica della polizia contro gli studenti, alle intelligenze critiche mortificate e zittite all’ università, alla prepotenza dei gorilla libici, al gineceo amazzonico che guarda il corpo del dittatore… 
Ma perché la nostra politica estera deve diventare sbracamento? Noi non pensiamo come quelli di An (dov’ erano?) che Gheddafi abbia fatto diventare debiti i nostri crediti storici. Ma distinguiamo il popolo libico da Gheddafi che, come i governatori colonialisti italiani, violai diritti umanie peggio di loro, da ben quaranta anni, commette soprusi. È vero che anche gli Stati Uniti si sono ammorbiditi con Gheddafi, ne hanno lodato il nuovo corso e la rinunzia alla ambizioni nucleari, e lo hanno depennato dalla lista dei paesi canaglia. Ma ve lo immaginate Gheddafi, vestito da capobanda municipale, che parla al Congresso degli Stati Uniti, o che fa una lezione ad Harvard o che pianta la tenda al National Mall, la striscia verde che è il cuore politico e istituzionale dell’ America? L’ Italia squattrinata può anche invitare Gheddafi, se davvero è disposto a comprare azioni della Telecom o, come dicono, a salvare la squadra della Roma, o ancora a riempirei nostri ammanchi energetici… 
Quando sono in ballo grandi e vitali interessi , non dico che approveremmo ma almeno capiremmo. Purché – lo ripetiamo – la diplomazia controlli ogni cosa e non si lasci sopraffare. Mai un invito diplomatico può diventare un evento da baraccone, una roba da estate romana, un’ esibizione che, ideata per impataccare, ha finito con l’ impataccarci. Ed è una patacca che ci resterà a lungo sul groppone, questa nostra politica da cammellieri, ingombrante come la tenda a villa Pamphili. Se il capo di Stato da spennare fosse stato esquimese, lo avremmo messo in una cella frigorifera accanto al laghetto di Villa Borghese, ghiacciato per l’ occasionee popolato con le foche de Roma?

Francesco Merlo