Libero – 14 Giugno 2009

La vera lezione da trarre dalla sciagurata visita del dittatore libico Gheddafi a Roma è che non è affatto vero che incurvando la schiena si possano raddrizzare gli affari. Perché se, da un lato, il messaggio recondito che trapela dai canali informativi è che dovremmo perdonare gli “eccessi verbali” di Gheddafi per salvaguardare degli interessi energetici, economici e commerciali che corrisponderebbero ad una priorità nazionale, dall’altro si tende a omettere che a giovarne sono essenzialmente i tradizionali potentati della finanza e dell’impresa, anche a scapito della piccola e media impresa che rappresentano il fulcro dell’attività sana della nostra economia, con un danno che prima o dopo si ripercuote sui nostri portafogli. Per trarre le somme dobbiamo partire dall’inizio della storia recente tra i due Paesi, per prendere atto dell’assoluta inaffidabilità di Gheddafi. Il 2 ottobre 1956 il presidente del Consiglio dei ministri Antonio Segni e il primo ministro e ministro degli Esteri libico Mustafà Ben Halim sottoscrissero a Roma l’Accordo tra l’Italia e la Libia di collaborazione economica e di regolamento delle questioni derivanti dalla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950. Esso consta di 19 articoli, 20 allegati e 14 scambi di note. Di fatto l’Italia risolse la spinosa e controversa questione del risarcimento dei danni coloniali, così come attesta l’articolo 18 che recita: «I due governi, nel dichiarare di loro piena soddisfazione le intese raggiunte col presente accordo, confermano di aver definito tutte le questioni dipendenti dalla risoluzione (dell’Onu del 15 dicembre 1950 che conferisce l’indipendenza alla Libia, ndr) o con questa connesse o dipendenti dal passaggio di sovranità». Concretamente l’Italia saldò il debito coloniale con il versamento alla Libia, così come contemplato dall’articolo 16 dell’accordo, della somma di 2.750.000 lire libiche, pari a 4.812.500.000 lire italiane quale contributo alla ricostruzione economica della Libia. Di questa somma, due terzi dovevano essere impiegati da parte del governo libico per l’acquisto in Italia, in tre esercizi finanziari successivi, di prodotti dell’industria italiana, mentre un terzo fu versato in contanti. Il colpo di Statoe il regime di Muammar Sennonché Gheddafi, dopo il colpo di Stato con cui nel 1969 rovesciò la monarchia, sconfessò gli accordi internazionali precedentemente sottoscritti e pretese la riapertura della questione dei risarcimenti coloniali. Teniamo presente che l’Italia è l’unica ex potenza coloniale al mondo che ha accettato di farlo, anche se il nostro peso coloniale è stato del tutto infimo rispetto a quello della Gran Bretagna, Francia, Olanda, Spagna, Portogallo e Belgio. Di fatto abbiamo scoperto che, ogni qual volta si era a un passo da un possibile accordo di natura finanziaria anche se sotto forma di un ospedale o dello sminamento delle aree desertiche teatro della seconda guerra mondiale, Gheddafi rialzava la posta perché ciò che gli interessava, veramente non era l’indennizzo, ma il poter usare l’Italia come valvola di sfogo delle frustrazioni interne di un popolo represso in quanto sottomesso alla sua feroce tirannia.

La conferma dell’inquadramento politico della questione del risarcimento coloniale è che il recente accordo, che contempla un esborso stratosferico di 5 miliardi di dollari, è stato accettato da Gheddafi solo nel contesto di un cosiddetto trattato di amicizia che di fatto stravolge l’alleanza dell’Italia con la Nato assumendoci l’impegno a non consentire che dal nostro territorio possano partire azioni aggressive nei confronti della Libia. Così come aveva implicitamente contemplato l’impegno dell’Italia a completare l’opera di sdoganamento di Gheddafi a livello internazionale, cominciando ad accoglierlo con i massimi onori a casa nostra come se si trattasse del più autorevole e prestigioso leader del mondo.

Ben ci sta! Che umiliazione sentirci dare delle lezioni di democrazia («Se il popolo italiano me lo chiedesse, gli darei il potere annullando i partiti e le elezioni») da un tiranno che ha le mani insanguinate di migliaia di oppositori interni massacrati e di centinaia di vittime di attentati terroristici di cui è stato definitivamente accusato dal tribunale internazionale dell’Aja. Che orrore accoglierlo il Campidoglio, nel Senato della Repubblica e nell’Università La Sapienza per permettergli di giustificare e legittimare il terrorismo equiparando gli Stati Uniti a Osama bin Laden. Che vergogna vedere il nostro capo di governo Berlusconi, qui a casa nostra, doversi infilare sotto una tenda eretta a residenza romana di Gheddafi, consentendogli un arbitrio che non sarebbe concesso a nessun italiano, nel tentativo di rabbonirlo dopo l’ennesima offesa alle nostre istituzioni che ha portato all’annullamento della sua visita alla Camera dei deputati, fino al punto da elevarlo a modello da emulare: «Gheddafi? Come un cliente un po’ originale. È intel­ligentissimo, se è stato al potere per 40 anni è perché ci sa fare».

Ebbene noi italiani dovremmo ingoiare tutti questi rospi perché Gheddafi in cambio ci garantirebbe un fiume di affari irresistibili. Ma a chi? I soliti nomi: Eni, innanzitutto, la madre della nostra politica energetica e della nostra politica mediorientale sin dal dopoguerra; Impregilo, Alenia Aeronautica, Prysmian Cable (ex Pirelli), Sirti Alcatel. Tanti progetti sulla carta, alcune promesse ventilate, certezze nessuna almeno per il momento. Le sole certezze che abbiamo è che finora gli affari con la Libia, da cui importiamo il 30% del nostro fabbisogno di petrolio e il 12,5% del nostro fabbisogno di gas, pari al 10% del nostro fabbisogno complessivo di energia, si sono spesso ritorte contro l’interesse degli italiani.

Partiamo dal caso della Fiat che, dopo aver consentito alla Libia di acquistare il 15% delle proprie azioni a par­tire dal 1976, dieci anni dopo le riacquistò con l’intermediazione di Mediobanca, con un’operazione in cui i piccoli azionisti dell’Ifil furono ingannati e danneggiati, avendo sottoscritto un aumento di capitale di una società ricca di attività finanziarie e si ritrovarono a possedere titoli industriali Fiat precipitati da 16.500 lire a 9.600 lire. Diciamo pure che, dopo il lancio dei missili libici su Lampedusa, la Fiat si sbarazzò dell’imbarazzante azionista libico riversando sulle nostre spalle un conto salato, 2,6 miliardi di dollari.

Prendiamo il caso dei crediti per un ammontare di 650 milioni di euro che 120 imprese italiane, perlopiù piccole e medie imprese, continuano a vantare nei confronti della Libia e che Gheddafi continua a non voler onorare. Fino al caso dei 3 miliardi di euro che la Airl (Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia) rivendica per le perdite e le confische subite dai 20 mila italiani cacciati dalla libia nel 1970. Al riguardo, di fronte al perdurante rifiuto di Gheddafi di indennizzare i nostri connazionali, quest’onere è stato assunto dal governo italiano anche se i versamenti effettuati sono ancora parziali.

Ecco perché è arrivato il momento di prendere atto che solo salvaguardando i nostri valori, la nostra dignità e la sovranità nazionale, potremo tutelare anche l’interesse economico dell’insieme della collettività. Ricordiamoci: con la schiena ricurva otterremo solo disprezzo e perdite; con la schiena dritta ci meriteremo rispetto e guadagni.

Magdi C. Allam