Il Gazzettino – 1 Giugno 2009

«Tanta amarezza». E questa la parola che Carlo Martines, cardiologo, libico nel cuore e italiano nel passaporto, usa più volte nel descrivere il sentimento che prova oggi, nel vedere Gheddafi omaggiato e riverito.

«Ma non è solo questo che ferisce, sono le scuse che non riesco a capire –precisa – La storia va avanti, ogni Paese allora ha qualcosa da imputare ad un altro. Anch’io ho molte cose da rimproverare alla Libia. La prima il modo con cui me ne sono andato».

Misura le parole e non alza mai toni, ma il disagio è palpabile.

Dottar Martines si sente italiano o libico?

«Dico sempre che il mio cervello ha due emisferi, uno libico e uno italiano. La mia famiglia è vissuta lì per sei generazioni e tre sono nate in quel Paese. Io sono nato, ho fatto il Liceo, poi mi sono laureato in medicina a Padova e sono rientrato in Libia, mi sono sposato e ho avuto, tre figli. Il Paese nordafricano era stato colonizzato e naturalmente nessuna colonizzazione è incruenta, ma dopo la guerra c’era stato un lento affiatamento fra le popolazioni» .

Andavate d’accordo con la popolazione locale?

«Certo, c’era amicizia e affiatamento. Soprattutto la nuova generazione negli anni Sessanta aveva massa da parte le tensioni le si viveva in piena solidarietà. Tra di noi si era creato un profondo equilibrio, noi eravamo utili a loro e stavamo bene in quel Paese».

E poi?

«Poi è arrivato Gheddafi e tutto si è rotto, c’è stata ondata di rivalsa e tutti gli equilibri si sono frantumati».

Ha dovuto lasciare la Libia.

«Sono venuto via quattro mesi prima della cacciata, non gli ho dato questa soddisfazione. Ero medico dell’ambasciata, curavo molti ministri libici e lavoravo in ospedale: avevo cominciato a servire che le cose si mettevano male. Certo, abbiamo perso tutto e abbiamo dovuto ricominciare daccapo»

E’ un gesto che non avete mai compreso?

«Voglio ragionare da libico e da occidentale. Non si può nascondere che un processo storico del genere poteva causare una rivalsa, che sotto un certo aspetto è anche comprensibile. Ma non lo è il modo in cui è stata fatta».

Oggi che Gheddafi è in Italia come si sente?

«Mi sento un italiano esiliato in patria. Venire cacciati è stato un trauma non indifferente, ancor più accentuato per i miei genitori e i miei nonni. Non ci fa piacere che a Gheddafi vengano presentate continuamente scuse. Allora noi dovremmo chiedere scusa a austriaci, francesi, gli americani a noi per i bombardamenti. Il tempo dovrebbe se non far dimenticare, sopire i disaccordi e indurci a guardare al futuro non al passato. L’Italia ha fatto una colonizzazione forse dolorosa, ma ha fatto anche del bene, ha costruito pozzi di acqua, debellato la tubercolosi, ha fatto scuole e moschee».

Aveva molti amici in Libia?

«Moltissimi, alcuni si sono mantenuti nel tempo. Ricordo quando giovane medico venni mandato dal ministro della sanità che era un mio ex compagno di scuola di Italia per riportare in patria un senatore libico, grande amico di re Idris, che stava morendo in una clinica romana. L’ho portato a Tripoli e l’indomani i giornali hanno scritto che “se l’avessero preso i nostri nonni l’avrebbero impiccato, invece le nuove generazioni hanno superato le decisioni e questo giovane medico l’ha aiutato”. E’ stata una bella testimonianza del clima che c’era allora».

E quando se ne è andato ha avuto attestazioni di solidarietà?

«Ho avuto una processione di persone che venivano a salutarmi e portarmi dei doni. Ricordo una anziana signora che ha fatto dieci chilometri a piedi per portarmi quattro uova: aveva le lacrime agli occhi perché perdeva il suo medico».

E’ più tornato?

«No, prima non si poteva e poi ho deciso io di non farlo. Ma forse cambierò idea».

Daniela Baresi