La Sicilia – 20 Aprile 2009

«Se oggi in Italia avessimo gli immobili, i terreni agricoli, l’industria di aeromotori per il sollevamento dell’acqua e la fabbrica di ghiaccio che avevamo in Libia, saremmo ricchissimi. Ma Gheddafi, nel 1970, ci cacciò come appestati. Come sanguinari conquistatori sconfitti per mano di un (discutibile) ritrovato ordine. E perdemmo tutto quello che i miei genitori e i miei zii avevano poco alla volta conquistato con il lavoro e il sacrificio di decenni». 
Chi parla è l’ing. Vincenzo Calabretta, 72 anni, profugo libico, che ieri mattina alle Ciminiere ha partecipato, su iniziativa dell’Airl (l’Associazione italiani rimpatriati dalla Libia), a un incontro durante il quale la presidente Giovanna Ortu ha illustrato ai circa 70 soci giunti da diverse parti della Sicilia orientale il contenuto del nuovo provvedimento di indennizzo per i beni confiscati da Gheddafi nel 1970. Un riconoscimento che, sottolinea la stessa presidente, «ancorché assai limitato rispetto alle legittime aspettative degli aventi diritto, ha un grande valore di risarcimento morale perché inserito nella legge di ratifica del Trattato firmato a Bengasi il 30 agosto scorso, con il quale l’Italia ha fatto generose concessioni anche economiche alla Libia in cambio della normalizzazione dei rapporti». 
«La mia famiglia era molto ben voluta – riprende Calabretta – fummo i primi ad aprire una fabbrica del ghiaccio in Tripolitania. Si chiamava “Ghiacciaie della Tripolitania” e dava lavoro a tanta gente del luogo. Io nacqui nel ’37. Tre anni dopo mio padre morì in un incidente aereo sullo Stromboli. Pochi mesi dopo scoppiò la guerra. Tornammo in Sicilia, per rientrare in Libia nel ’47. Molti possedimenti e alcune case li trovammo occupati da altra gente. Non l’industria del ghiaccio, che fu ampliata. Tutto andò bene fino al 1970. Quel maledetto anno in cui Gheddafi decise di rimpatriarci. Ci confiscarono terreni, case, industrie. Io ero in viaggio di nozze, fuori della Libia. Appresi i fatti per radio. E con mia moglie rientrammo direttamente a Catania. Qui, ho fatto per tanti anni l’assicuratore e mi sono anche occupato di alcuni centri di riabilitazione per malati mentali. Le briciole che abbiamo avuto dai vari governi italiani sono sempre state sudate e frutto di cause giudiziarie. Pretendevano i certificati di proprietà. Una presa in giro, per chi è dovuto fuggire o addirittura non rientrare, come me. Il nuovo accordo? È un passo avanti, ma il quantum che spetterà a ciascuno di noi non è stato ancora stabilito». 
«Avevo appena conseguito il diploma. Era il luglio 1970 – racconta Enzo Lucenti, 61 anni, oggi assicuratore -. Appena il tempo di godermi uno spicchio d’estate. Poi fummo cacciati da Gheddafi. I miei genitori, i miei fratelli e io. I nostri terreni nel villaggio Francesco Crispi, a 120 chilometri da Tripoli, furono confiscati. Producevamo grano, olio e ortaggi. Tutto perduto. Pur essendo di Scicli, nel Ragusano, decidemmo di tornare a Catania, dove la famiglia di mio padre aveva un’impresa edile che lavorava per la Casa reale. Mio padre fu assunto come bidello. I miei fratelli dopo brevi esperienze lavorative si trasferirono al nord. Io fui assunto da una compagnia di assicurazione. Oggi sono titolare di una filiale. Ho moglie e due figli. Non possiamo lamentarci. Ma in questi 39 anni abbiamo ottenuto davvero poco dallo Stato italiano». 
Vincenzo Trotolo, 67 anni, siracusano, è uno di quei profughi che in Libia lavorava ma non aveva possedimenti. «In quella terra, dov’ero nato e dove mia madre aveva trovato la morte dandomi alla luce – racconta – ho lasciato soltanto un pezzo di cuore. E tanti affetti. Ma questi non sono rimborsabili. E io non chiedo nulla. Vorrei solo che la smettessimo di inchinarci davanti a chi (Gheddafi, ndr.) continua a infangarci e sa solo pretendere dal nostro Paese». Un altro che in Libia non ha lasciato niente è il dott. Giancarlo Isaia, 70 anni, alto dirigente del ministero del Tesoro a riposo, nativo di Tripoli dove la sua famiglia aveva un’industria di barche e pescherecci ereditata dai nonni materni. «Nel ’51 i miei decisero di rientrare in Italia, a Catania. Zii e cugini restarono in Libia fino al ’70. E persero tutto quello che avevano portato avanti con fatica e sacrificio. È per loro che io sono iscritto all’Airl. E per l’amicizia che mi lega alla sua presidente».

150 milioni per gli italiani espulsi dalla Libia

«Nel trattato di Bengasi il nuovo provvedimento d’indennizzo»

Finalmente per i rimpatriati dalla Libia è arrivato un giusto riconoscimento: 150 milioni di euro per i profughi cacciati nel 1970 da Gheddafi (su come ottenerli consultare il sito www.airl.it). Il nuovo provvedimento di indennizzo rientra nell’ambito del Trattato firmato a Bengasi il 30 agosto scorso. «Dalla ratifica gli italiani espulsi dalla Libia sono stati beneficiati perché – dice Giovanna Ortu, presidente dell’Airl (associazione italiani rimpatriati Libia) -, grazie a emendamenti presentati da An, Udc, Radicali e fatti propri da tutto il Pd e dall’IdV, con il placet del ministro La Russa, sono riusciti a incassare un “cip” sull’indennizzo minimo che avevano richiesto e un pieno riconoscimento morale del loro sacrificio da parte di tutti i parlamentari. In più il Trattato ha posto fine a una inammissibile discriminazione in tema di visti turistici, determinata non da una volontà vessatoria della Jamahiria, ma dalla necessità di Gheddafi di avere un efficace strumento di pressione per arrivare alla soddisfazione di ogni pretesa».

Vittorio Romano