Il Corriere della Sera – 8 Dicembre 2008

Pochi mesi fa, a un convegno sui Paesi del Golfo organizzato dalla Fondazione Cini e da Sciences Po, la Scuola parigina di scienze politiche, il principe Turki Al Faisal, ex ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington, pronunciò un discorso in arabo. Ma disse all’inizio del suo intervento che si sarebbe servito dell’inglese (lo parla perfettamente) per fare una breve dichiarazione.

Drizzammo gli orecchi e capimmo subito che la dichiarazione era indirizzata al presidente del Consiglio italiano, «colpevole» di avere esortato gli industriali italiani ad alzare la guardia contro i fondi sovrani dei Paesi petroliferi: un ammonimento che il principe, evidentemente, considerava poco amichevole. Gli risposi che i moniti di Berlusconi mi sembravano meno importanti del viaggio che il ministro degli Esteri Franco Frattini stava facendo in quei giorni a Qatar, dove non avrebbe certo scoraggiato gli investimenti arabi in Italia. L’acquisto libico di azioni dell’Eni per una percentuale che potrebbe toccare il 5% e salire successivamente sino al 10%, dimostra che il Golfo, per l’Italia, è alle porte di casa.

L’affare è probabilmente una ricaduta del trattato che Berlusconi ha firmato recentemente con Gheddafi, ma è anche l’ultimo capitolo di una lunga storia d’amore, intervallata da parecchie crisi.

Tutto cominciò negli anni Trenta quando un geologo italiano, Ardito Desio, disse a Italo Balbo, allora governatore della Libia, che sotto le sabbie del deserto vi erano probabilmente importanti giacimenti petroliferi e che sarebbe stato utile condurre ricerche. Balbo lo autorizzò e Desio si mise al lavoro. Qualche mese dopo mostrò al governatore una bottiglia piena di un denso liquido giallo-nero. Quando raccontò la sua storia al Circolo della stampa di Milano nella prima metà degli anni Novanta (è morto nel 2001 all’età di 104 anni), Desio disse che la bottiglia era ancora su uno scaffale del suo studio. 
Le ricerche vennero interrotte poco tempo dopo e molti sostennero più tardi che l’Italia aveva perduto una grande occasione.

In un libro su Enrico Mattei, uno storico, Giovanni Buccianti, sostiene che il petrolio fu la vera causa della fermezza con cui la Gran Bretagna, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, volle conservare, sia pure indirettamente, il controllo della Libia. Ma il motivo dell’interruzione delle ricerche di Desio fu probabilmente, insieme allo scoppio del conflitto, la difficoltà dello sfruttamento. 
In un’epoca in cui i pozzi delle grandi compagnie petrolifere scendevano generalmente a meno di mille metri, i giacimenti di petrolio libico erano due mila metri sotto le sabbie del deserto: troppi per le attrezzature utilizzate in quegli anni.

La situazione cambiò bruscamente nel giugno del 1959 quando la società americana Esso confermò la presenza di importanti giacimenti a Zeltan in Cirenaica. La produzione cominciò nei mesi seguenti sulla base di contratti che assicuravano al governo libico il 50% dei profitti e crebbe rapidamente: 900.000 tonnellate nel 1961; 40,9 milioni nel 1964; 58,5 nel 1965 e 72,3 nel 1966. La Libia era allora un regno, amministrato benevolmente dal vecchio re Idris, capo della Senussia, la confraternita religiosa che aveva tenacemente combattuto contro gli italiani all’epoca della conquista. Idris era alleato della Gran Bretagna, ma amico degli italiani e protettore della comunità italiana rimasta in Tripolitania e in Cirenaica dopo il conflitto.

L’Eni di Mattei non ebbe difficoltà a farsi spazio tra le società straniere che scesero sulla Libia come calabroni e cominciò un’attività che è andata progressivamente crescendo sino ad assicurare il 20% del fabbisogno italiano di idrocarburi. Consumiamo ogni giorno 300.000 barili di petrolio libico e importiamo gas per una quantità annuale di 8 miliardi di metri cubi grazie al gasdotto sottomarino Greenstream costruito dall’Eni.

Il colpo di Stato e l’arrivo di Gheddafi al potere nell’autunno 1969 ha chiuso la fase post-coloniale, quando gli italiani erano ancora ospiti graditi. Poco dopo la proclamazione della repubblica, perdettero i loro beni e furono cacciati dal Paese. Ma l’Eni rimase in Libia. Vi sono stati da allora momenti di crisi durante i quali Gheddafi ha trattato l’Italia come il nemico secolare e le ha indirizzato oscure minacce. 
Ma sotto la dura crosta delle relazioni politiche e degli sgarbi libici il fiume degli affari, bene o male, continuava a scorrere. L’Italia consumava petrolio libico e lo pagava, almeno in parte, con le sue esportazioni. La Libia incassava i benefici dell’operazione e sceglieva l’Italia per i suoi investimenti, come accadde negli anni Settanta, quando divenne uno dei principali azionisti della Fiat in un momento in cui l’azienda italiana era afflitta da grandi difficoltà.

Sospinto dal petrolio, il fiume degli affari continuò a scorrere persino dopo gli attacchi americani contro la Libia nel 1986 e l’attentato terroristico contro un aereo della Panamerican nel cielo scozzese di Lockerbie. Furono adottate sanzioni internazionali contro il regime di Gheddafi e le società americane furono persuase dal loro governo ad abbandonare il Paese, ma l’Eni, nonostante i bruschi sbalzi di temperatura del clima politico, continuò a estrarre e trasportare petrolio.

Qualcuno sostenne maliziosamente che la politica estera italiana in Libia è sempre stata, soprattutto dopo l’avvento di Gheddafi, quella dell’Eni. Il giudizio è forse forzato, ma è certamente vero che in un quadro politico italiano caratterizzato da sussulti e singhiozzi, il rapporto con la Libia colpisce gli osservatori per la sua continuità e stabilità. Fra Moro e Andreotti, Craxi e D’Alema, Amato e Dini, Prodi e Berlusconi, le differenze sono minime. 
E’ possibile che Berlusconi sia riuscito a stringere con Gheddafi un rapporto particolarmente cordiale, ma ha colto i frutti di un albero che è stato piantato dai suoi predecessori. 
La ragione di questa concordia-discorde è probabilmente l’equilibrio dei ricatti. L’Italia aveva bisogno del petrolio libico e la Libia, pur senza ammetterlo esplicitamente, aveva bisogno del denaro italiano, delle esportazioni italiane e di quella discreta assistenza politica che l’Italia continuò a darle sul piano internazionale anche negli anni in cui il regime di Gheddafi era considerato a Washington quello di uno Stato canaglia.

Stiamo entrando in una fase nuova? E’ probabile che la Libia voglia un posto all’Eni per due ragioni. In primo luogo le azioni della società italiana, dopo il collasso dei mercati, sono in questo momento a buon prezzo. In secondo luogo la Libia, come ogni Paese petrolifero, non vuole essere soltanto un fornitore di materie prime. Come la Russia, anche se su scala molto più piccola, vuole avere un piede nel mercato del suo principale cliente e partecipare alla definizione di strategie che avranno un effetto sul suo futuro. Il petrolio è una ricchezza volubile, soggetta a forti sbalzi di valore e destinata a ridursi col passare del tempo. Gheddafi lo sa e comincia a prendere le sue precauzioni.

Sergio Romano