Il Riformista – 23 Ottobre 2008

Per ora non hanno avuto il seggio in consiglio di amministrazione di Unicredit, ma se ne riparlerà presto. Perché i libici sono entrati nella banca di Alessandro Profumo per restarci. La banca centrale della Libia e due fondi sovrani sono saliti al 4,23 per cento del capitale il 16 ottobre, solo il giorno prima Silvio Berlusconi aveva parlato del rischio di scalate ostili sulle grandi aziende italiane che ora costano poco in Borsa, dopo i recenti crolli dei prezzi azionari. Eppure a quasi tutti gli osservatori è sembrata una mossa a difesa del sistema italiano, meglio accettare petrodollari amici che rischiare di essere comprati da un concorrente spagnolo o da un fondo spagnolo. Gli unici a protestare sono 4,5 stati i leghisti: il ministro dell’intemo Roberto Maroni ha chiesto clic «oltre a preoccuparsi di Unicredit» la Libia si decida ad attuare gli accordi sull’immigrazione», i leghisti di Lampedusa come Angela Maraventano che hanno suggerito «Invece di comprare azioni, i libici ci costruiscano una scuola e un poliambulatorio multifunzionale, risarcimento per tutti i disagi provocati dalla libera partenza dei clandestini verso l’isola». Ma il leghista più arrabbiato per gli applausi che hanno accolto i capitali libici è Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione nonostante a maggio la Libia si fosse esplicitamente opposta a un suo ingresso nel governo (per la vecchia vicenda della maglietta antimusulmana esibita in tv che scatena rivolte contro il consolato italiano a Bengasi con morti e feriti 2006). Ma una lobby antilibica in Italia non esiste, con l’eccezione dell’Airl, l’associazione degli italiani espulsi dal leader libico Muhammar Gheddafi nel 1970, guidata da Giovanna Ortu, che continua a chiedere il riconoscimento degli indennizzi per l’espropriazione dei beni e l’espulsione. E tra chi non è entusiasta di fare affari con Tripoli ci sono anche circa 100 imprese italiane che cominciano a preoccuparsi per 600 milioni di dollari di pagamenti mai ricevuti da clienti o partner libici. La lista degli estimatori della Guida della rivoluzione, questo l’unico titolo ufficiale di Gheddafi, invece è lunghissima. Soprattutto da quando l’undici settembre e la guerra al terrorismo hanno cambiato lo status della Libia: da paese canaglia ad alleato in posizione strategica. Nella politica i grandi sponsor di Gheddafi, anche nella precedente versione di grande nemico degli Stati Uniti, ai tempi di Ustica, Lockerbie e dei bombardamenti sulla residenza del leader, sono da sempre Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, come pure lo fu Aldo Moro. Ma alle feste di Abdulhafed Gaddur, anche prima che lasciasse il ruolo di rappresentante libico in Vaticano per diventare ambasciatore in Italia, si vedevano Lamberto Dini e Massimo D’Alema, a sinistra tra i più influenti sponsor del Colonnello Gheddafi in Italia (tra gli altri simpatizzanti c’è Valentino Parlato del manifesto, clic il Libia è nato e vissuto). Il 30 agosto Berlusconi, che non è mai stato tra i più intimi della Guida della rivoluzione, ha firmato con la Libia un accordo da 250 milioni all’anno per vent’anni, di cui non sono chiari tutti i dettagli, ma che è l’ultima tappa di un lungo processo di risarcimento per le vicende coloniali. «E l’aiuto strutturale che Gheddafi voleva», scrive in un paper il ricercatore dell’Istituto studi di politica internazionale Arturo Varvelli, che sta finendo un libro sugli inizi del regime del Colonnello. L’accordo è anche la base per consolidare rapporti economici sempre pi stretti, favoriti dalla cancellazione di una tassa che pesava sugli investitori italiani tra lo 0,5 e il 2 per cento di ogni contratto conci uso. Le imprese investono in Libia quasi sempre con la forma della joint venture, cioè formando una nuova azienda insieme a un partner locale, perché i libici sono interessati più alla condivisione di tecnologie e conoscenze di cui hanno molto bisogno che ai capitali. Così ha fatto ltalcementi, che sta realizzando un nuovo cementificio insieme al Fondo libico per lo sviluppo. Carlo Pesenti, consigliere delegato dell’azienda, è anche nel consiglio di amministrazione di Unicredit. La banca di Profumo è legata alla Libia anche via Capitalia, ex Banco di Roma, che aveva una ricca filiale oltremare prima della cacciata degli italiani nel 1970. Sotto la gestione di Cesare Geronzi, i fondi libici avevano raggiunto una quota del cinque per cento in Capitalia, che poi si è diluita quando la banca romana si è fusa con Unicredit. I flussi di denaro tra Italia e Libia spesso passano per l’Ubae, Unione delle banche arabe ed europee, fondata nel 1972 come costola del Banco di Roma, ora guidata dal riservato Biagio Matranga. Da quando i prezzi del petrolio sono aumentati con la prima crisi petrolifera nel 1973, la Libia si è trovata a disposizione enormi risorse da investire all’estero, come ha fatto ad esempio nella Fiat nel 1976 (anche all’epoca fu un’operazione di soccorso in una fase di difficoltà), allora guidata da Cesare Romiti. Alla presidenza c’era Gianni Agnelli, in grado di fare operazioni politicamente sensibili come quella con una certa autonomia, forte del suo ruolo informale di ambasciatore dell’Italia nel mondo. Ma è soprattutto l’Eni ad avere rapporti stretti con il Colonnello, spesso tesi, come nel 1972 quando dovette firmare un accordo di compartecipazione con l’Ente petrolifero libico per lo sfruttamento del giacimento di Bu Attifel. L’alternativa era la nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Di recente il gruppo guidato da Paolo Scaroni ha firmato con la Libia sei contratti di Condivisione dell’esplorazione e produzione che prolungano la fornitura di petrolio fino al 2042 e quella di gas fino al 2047. Dalla Libia importiamo prodotti per 14 miliardi di euro, quasi per intero sono petrolio e gas che transitano per l’Eni. Oltre all’industria pesante, poi, ci sono lo sport e il turismo a legare i due paesi. Dalla Sicilia partono i massicci investimenti di Carmelo Patti, patron di Valtur che di recente ha costruito un villaggio turistico vicino al coni plesso archeologico di Villa Silin. Poi c’è il calcio: da anni la famiglia Gheddafi è socia della Juventus al 7,5 per cento, ma nel 2002 ha investito anche nella Triestina. Saadi Al Gheddafi, terzo figlio del Colonnello, ha giocato qualche partita con la maglia numero 19 del Perugia di Luciano Gaucci (ora latitante), prima di essere squalificato per doping e transitare per un breve periodo da Sampdoria (dei petrolieri Garrone) e Udinese. Era anche capitano della nazionale libica, ma il ct Franco Scoglio non lo faceva giocare. La Guida della rivoluzione ha licenziato l’allenatore.

 

Feltri Stefano