Il Secolo XIX – 9 Ottobre 2008

«Gheddafi in Italia? Se lo può scordare, a meno che Berlusconi non chieda scusa anche a noi». Giovanna Ortu, leader dell’Associazione rimpatriati dalla Libia, minaccia di portare in piazza centinaia di persone il giorno della visita a Roma di Muammar Gheddafi. Una visita auspicata ieri dal ministro degli esteri Franco Frattini: «Spero di avere presto il colonnello in Italia. Sarebbe una visita storica, come è stato storico l’accordo di amicizia fra Roma e Tripoli».

Gheddafi, ricevendo l’altro ieri un’eterogenea rappresentanza ita liana (c’erano Andreotti, Sgarbi, Dini, Pisanu e altri) aveva detto che ora non ci sono più impedimenti per un suo viaggio a Roma. Giovanna Ortu: «Benissimo. Hanno fatto la pace. E noi cosa dobbiamo inventare per essere presi in considerazione? Dobbiamo diventare clandestini? A me va tutto bene: l’accordo, l’autostrada che porterà tanti affari, le scuse per le nefandezze coloniali. Ma noi, allora? Cacciati quarant’anni fa senza nessuna colpa, e con gli averi confiscati. Se pensano che ci arrendiamo perché hanno raggiunto il loro scopo, appunto fare qualche bell’affare con la tecnologia e il petrolio, si sbagliano di grosso».

Dal 23 settembre, davanti a palazzo Chigi, una rappresentanza dell’Associazione dei rimpatriati issa cartelli e striscioni per dodici ore al giorno, sabato compreso. Il motivo è noto: ai rimpatriati è stato pagato un indennizzo parziale, nel corso degli anni, ma nessuno ha mai voluto saldarlo malgrado le tante promesse.

Ora, l’accordo tra Roma e Tripoli è da applaudire per tanti motivi. Prima di tutto mette il Paese di fronte alle sue non poche responsabilità storiche. Poi, consente alle industrie italiane di sbarcare sull’ex Quarta Sponda in modo pa cifico, e di conquistare un mercato ricco di prospettive. Infine, contribuisce alla prosperità di uno Stato che può costituire, se laico e benestante, un baluardo contro la deriva fondamentalista (nonché contribuire al controllo dell’immigrazione clandestina). Ma i rimpatriati? «Si sono dimenticati di noi», dicono. «Gli ricorderemo chi siamo».

Paolo Crecchi