Il Corriere della Sera – 2 Luglio 2014

Ho trovato molto convincente la tesi esposta da Claudio G. Segré nel libro La politica estera italiana/1860-1985 a proposito della continuità tra il colonialismo di stampo liberale e quello fascista. Il tentativo di De Gasperi dopo la guerra di ottenere il mantenimento di alcune zone dell’impero o di ottenere l’amministrazione fiduciaria dell’Africa orientale è comprensibile perché come presidente del Consiglio italiano aveva il dovere di tentare di salvare il prestigio della nazione (i vantaggi economici tratti dall’Italia dalle colonie sono dubbi) ma quanto espresso da Segré mi pare oltremodo convincente. 

Antonio Fadda , antonio.fadda@virgilio.it 

CaroFadda,

Claudio Segré, autore tra l’altro di libri sulla conquista della Libia e su Italo Balbo, ha ragione. Ma avrebbe avuto altrettanta ragione se avesse constatato che vi fu continuità anche fra il colonialismo prefascista e quello praticato dai governi Mussolini dopo la marcia su Roma. Il ministro delle Colonie nei due governi Facta del 1922 fu Giovanni Amendola, leader del liberalismo antifascista e protagonista dell’«Aventino», l’infelice strategia con cui un fronte di parlamentari antifascisti disertò i lavori di Montecitorio nella speranza di rovesciare il governo Mussolini dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. La Libia, in quel periodo, si era pressoché interamente sottratta al controllo dell’amministrazione coloniale italiana. Quando fu nominato governatore della Tripolitania dal governo di Ivanoe Bonomi nel 1921, Giuseppe Volpi aveva il compito di riconquistare il territorio perduto e, in particolare, Misurata, la città che è stata anche recentemente, insieme a Bengasi, uno dei maggiori centri della rivolta contro Gheddafi. Volpi si attenne alle istruzioni e Amendola, quando divenne ministro, lo incoraggiò e lo sostenne. Volpi rimase a Tripoli fino al 1925 e continuò a fare con Mussolini una politica non diversa da quella che aveva fatto con Bonomi e Facta. Possiamo parlare di colonialismo fascista negli anni successivi, quando il generale Graziani riconquistò la Cirenaica con metodi alquanto diversi e scelte (come l’impiccagione di Omar Al Mukhtar) che hanno lasciato una macchia sull’amministrazione coloniale italiana. Ma alcuni Paesi (la Francia in Algeria, la Spagna in Marocco, la Gran Bretagna in Africa del Sud, i Paesi Bassi in Indonesia) non sono stati meno brutali.

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale fu subito evidente che l’Italia non sarebbe tornata in Etiopia, uno Stato troppo recentemente conquistato con una guerra che aveva provocato la condanna della Società delle Nazioni. Ma le altre colonie furono difese con gli argomenti di tutti i governi precedenti. L’opinione dominante era convinta che l’Italia fosse stata, nei suoi possedimenti africani, un faro di civiltà. La Chiesa italiana non voleva rinunciare alle istituzioni che aveva creato nelle colonie per diffondere la fede.Quasi tutti i partiti sostenevano che l’Italia avesse bisogno delle colonie per offrire ai suoi figli una terra in cui emigrare. Vi furono negoziati italo-inglesi, condotti da Carlo Sforza che sembrarono produrre un onorevole compromesso: la Tripolitania all’Italia, la Cirenaica alla Gran Bretagna. Ma l’Unione Sovietica voleva qualcosa per sé e cercava di boicottare le iniziative che avrebbero consolidato gli imperi coloniali delle potenze occidentali. L’accordo italo-inglese rimase lettera morta e la Gran Bretagna, a quel punto, promosse la creazione di un regno libico sotto la guida di Idris, il leader rispettato di una congregazione islamica, la Senussia, che esercita ancora una considerevole influenza sulla Cirenaica. In Italia vi furono manifestazioni di disappunto, ma durarono soltanto sino a quando, dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, ci accorgemmo che le colonie, per i Paesi che erano riusciti a conservarle, sarebbero state un grattacapo.

Sergio Romano