Dall’avvio, a maggio a Bengasi, dell’operazione Dignità sotto la guida del generale a riposo Khalifa Haftar mirata a sradicare le forze definite “terroriste” sempre più potenti in Cirenaica, fino al braccio di ferro delle ultime settimane a Tripoli tra milizie rivali di Zintan e Misurata per il controllo dell’aeroporto e, indirettamente, per il potere politico: sta precipitando la situazione in Libia, mettendo in serio pericolo il corso stesso di una transizione già sotto minaccia costante.

Per cercare di individuare le dinamiche che hanno trascinato il paese nel caos e dove, ha avvertito lo stesso primo ministro Abdallah al Thini, si rischia il “crollo totale dello Stato”, la MISNA ha contattato Claudio Pacifico, ambasciatore in Libia dal 2000 alla fine del 2004. Diplomatico di lungo corso, vice-ambasciatore in Somalia, ambasciatore in Sudan, in Egitto, rappresentante dell’Italia presso la Lega Araba, inviato speciale per il Mediterraneo e il Medio Oriente, saggista e autore di numerosi libri sulla regione, tra cui “Dieci anni in Egitto, Libia e Sudan”.

Da tempo segnali negativi giungono dalla Libia sia sul piano politico-istituzionale che su quello della sicurezza. Come si è arrivati alla situazione odierna? Si poteva prevedere un tale scenario?

Non vorrei usare un termine troppo forte né scontato ma, purtroppo, siamo di fronte a una tragedia annunciata. Segnali negativi si sono manifestati fin dal crollo del regime di Muammar Gheddafi nel 2011, che si sono poi amplificati.

I meccanismi che hanno trascinato la Libia sull’orlo del precipizio hanno radici storiche, culturali e politiche che ci portano indietro nel tempo.

Storicamente la Libia come entità non è mai esistita sino alla occupazione coloniale italiana nel 1911, ma era divisa fino all’inizio del 900’ in due “Villayet” (governatorati), Tripolitania e Cirenaica, sotto il dominio dell’Impero ottomano, è un’ampia fascia desertica, il Fezzan, contesa da più parti. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la Libia ha trovato l’indipendenza sotto la guida di Re Idris.

La Libia è stata da sempre al centro di interferenze straniere, ambita per la sua posizione strategica e per le sue risorse petrolifere. E’ rimasta soprattutto un grande crogiolo di “Cabile” ed etnie non amalgamate, di popoli molto diversi tra loro (arabi, berberi, arabi berberi, tuareg, tebù, beduini) che prima di 60 anni fa non si erano mai confrontati con i valori della modernità. Insomma, la Libia è rimasta un mosaico estremamente fragile con una storia di popoli guerriglieri (fino al 900’) e con un background culturale molto lontano dal mondo occidentale e dai sistemi democratici.

 Il regime di Gheddafi, al potere dal 1969, con tutti i suoi limiti e le sue nefandezze era riuscito a creare un assetto unico, a stabilizzare la Libia e di conseguenza l’intera regione. Inevitabilmente il crollo del suo potere ha scardinato tutti gli equilibri interni e regionali. La sua dittatura, con le sue politiche visionarie e megalomani ma anche con i suoi risvolti brutali, ha tenuto insieme le varie anime, ha dato lavoro a una foltissima comunità di africani (stimati in 3,5 milioni su una popolazione totale di 5,5 milioni), riuscendo a produrre una certa ricchezza. Sul piano regionale e globale il potere di Gheddafi ha anche costituito una grande barriera nei confronti dell’islam radicale e del terrorismo, una sorta di scudo.

Alla MISNA l’ex ambasciatore Claudio Pacifico individua poi i fattori esterni che hanno spinto la Libia verso un futuro davvero incerto e, guardando avanti, quali possono essere i prossimi sviluppi nonché i rischi diretti per i paesi vicini e la riva nord del Mediterraneo.

Quali sono le responsabilità esterne al caos attuale?

Le responsabilità esterne sono da tempo sotto gli occhi di tutti. Le ambizioni di alcuni paesi occidentali ed anche una serie di odi e rivalità interarabe sono stati all’origine della violenta offensiva contro il regime di Gheddafi. Intervento che da una parte ha finito di tarpare le ali alle speranze di quei libici che volevano veramente creare nel loro paese uno stato libero e democratico, dall’altra parte ha fatto saltare tutti gli equilibri interni alla Libia e precipitato il paese in una spirale di violenza e drammatica instabilità.

Nonostante i tentativi intrapresi per la ricostruzione, la spirale di violenza è, come d’altronde vediamo in questi giorni, continuata fino ad ora, punteggiata di fatti atroci come l’uccisione dell’ambasciatore statunitense nel settembre 2012. Travolto da grandissime sofferenze il popolo libico, soprattutto, come sempre, quelle fasce di popolazioni inermi (e innocenti), donne, bambini, anziani e tanti libici pacifici desiderosi di tornare ad una vita normale.

Vede qualche spiraglio positivo in grado di impedire il crollo della ‘nuova’ Libia?

Siamo di fronte a uno scenario davvero molto incerto e complesso per la presenza di innumerevoli milizie e gruppi d’interesse, stimati in circa 1200. Una frammentazione davvero paurosa che rende l’uscita di crisi ancora più difficile da intravedere. La Libia sta vivendo uno dei momenti peggiori della sua storia.

In questo contesto mi sembra che l’unico punto fermo possa essere costituito dalle istituzioni moderate e dalla nuova Camera dei rappresentanti (parlamento) eletta dal popolo, anche se con un’affluenza alle urne molto bassa. Un parlamento costituito da una forte maggioranza laica, contestata proprio da questi gruppi armati in lotta da Tripoli a Bengasi.

Questo fronte laico – una parte dell’intelligentia filo-occidentale che vuole istituzioni forti – potrebbe trovare una convergenza, in questo momento particolare, con i valori militari di cui si è fatto il portabandiera il generale a riposo Khalifa Haftar, un personaggio certamente controverso che con le sue forze sta cercando di neutralizzare le forze islamiste ormai terroristiche in Cirenaica.

Intanto a pagare il prezzo più alto della catastrofe è il povero popolo libico, allo stremo. Solo con il ritorno dell’ordine e con una certa stabilità istituzionale il paese potrà ripartire e rilanciare a pieno regime le attività petrolifere ed economiche per consentire alla gente di tornare a vivere. E poi potrebbe anche tornare a galla la speranza che le aspirazioni espresse nel 2011 riemergano e crescano.

Quali sono le ripercussioni dirette della grave instabilità della Libia sul piano regionale, sia in Medio Oriente, nel Sahel che nel Mediterraneo?

Al di là della fuga di migliaia di libici e stranieri (egiziani e altre nazionalità dei paesi dell’Africa sub sahariana) che stanno affluendo numerosi al confine con la Tunisia (secondo la diplomazia tunisina tra 5000 e 6000 persone al giorno nell’ultimo periodo, ndr), il pericolo più grosso è il rischio di contagio in tutto il Sahel di gruppi armati che hanno come denominatore comune la violenza, il terrorismo e l’odio contro l’Occidente. Un contagio già in parte avvenuto negli ultimi tre anni – con spostamenti di questi combattenti che vanno dall’ampia fascia del Sahel (Mali, Niger,ecc) fino all’Egitto, il Sinai e Gaza – che potrebbe espandersi ulteriormente. Ognuno di questi stati rischia di avere intere porzioni di territorio che diventano terre di nessuno, come in Somalia.

Guardando al caos libico dalla riva nord del Mediterraneo, ci sono possibilità concrete di un’ulteriore ondata da immigrazione, con tutti i drammi e i traffici visti troppe volte in mare. Al tempo stesso sono vive le preoccupazioni per gli investimenti italiani. Ricordo l’importanza degli approvvigionamenti energetici: prima della crisi l’Eni aveva una produzione di 280.000 barili di greggio al giorno. E, dopo la costruzione del gasdotto inaugurato nel 2004, il gas libico costituiva circa il 12% del nostro fabbisogno nazionale.