Il Paese è un campo di battaglia dove l’equilibrio tra tribù, fazioni e particolarismi è saltato. Ed è caduto anche l’ultimo tabù: non sparare sugli impianti petroliferi

C’è ancora la Libia? La domanda viene spontanea quando da Tripoli si cerca di raggiungere Tobruk, o viceversa. Alla prova dei fatti risulta laborioso, lungo, spesso pericoloso, talvolta impossibile. Viaggiare poi tra le regioni dell’interno è un temo all’otto per chiunque. Chi può esce dal Paese e rientra dalla parte di confine più vicina alla zona che intende visitare. Fino a un anno fa, le brigate militari legate ai gruppi ribelli, che con rapporto fondamentale della Nato defenestrarono nel 2011 il regime di Gheddafi, si riconoscevano più o meno tutte in una sensibilità comune, in obbiettivi collettivi. L’idea trainante e fonte del consenso era che il Paese rinato dalle ceneri della dittatura, pure se tra mille difficoltà, stava ponendo le basi del proprio futuro. Pochi sostenevano di non riconoscersi nello Stato libico e nell’idea di un avvenire condiviso. Ora non è più così. Prevalgono ormai i localismi, gli interessi particolari di gruppi anche minori, ma determinati e pronti a combattere. È come se Gheddafi abbia voluto vendicarsi da morto. Per quattro decenni uno dei segreti del suo potere è stata la grande capacità del “dividi et impera”: ha calibrato con furbizia le autonomie, i particolarismi, riuscendo quasi sempre a mettere i suoi avversari (o i pretendenti al suo posto) gli uni contro gli altri. Gheddafi incarnava lo Stato centrale, che però metodicamente eliminava qualsiasi autorità che potesse sfidarlo. Era allo stesso tempo monarca assoluto e oppositore. Le divisioni degli altri erano il suo punto di forza, a costo di indebolire quegli stessi organismi che avrebbero dovuto sostenerlo. Da ex generale golpista, temeva un esercito troppo potente. E ciò spiega il fatto che impiegò quasi due mesi prima di mettere assieme i suoi soldati nella primavera 2011.

Era andato porta per porta, tenda per tenda, a bussare dai capi tribali. E alla fine lo avevano ascoltato in tanti. Se non ci fosse stata la Nato a dar manforte ai ribelli, Gheddafi avrebbe vinto. Oggi restano quei gruppi divisi, ma manca un potere, una figura centrale in grado di coalizzarli e indirizzarli. Il labirinto di milizie, tribù, bande criminali, gruppuscoli radicali islamici si è fatto talmente intricato da rendere persino la vita difficile ai giovani volontari di Isis arrivati dall’estero sull’onda del caos interno. Per comodità giornalisti e commentatori tendono a riassumere l’anarchia libica nello scontro frontale tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli. il primo, riconosciuto da larga parte dei Paesi occidentali e sostenuto anche militarmente dal regime egiziano dell’ex generale Abdel Fattah al Sisi, si presenta come espressione laica e democratica delle elezioni del 2012. L’altro raccoglie le forze islamiche nate dalle formazioni locali di Fratelli Musulmani ed è aiutato da Turchia, Qatar e Sudano. In verità questi due poli sono a loro volta composti da formazioni in attrito tra loro. A Tripoli le figure di maggior rilevanza politica arrivano dalla grande e potente milizia di Misurata. Sono moderatamente religiose, e ancora rabbiose con le tribù che una volta sostenevano Gheddafi e con tanta violenza nella primavera 2011 aggredirono la loro città. Non a caso il premier del governo nella capitale, Khalifa al-Ghweil,
è una delle personalità di spicco di Misurata. Dopo una lunga intervista con lui a fine luglio ho potuto constatare la sua profonda ostilità nei confronti di un governo di unità nazionale, così come proposto dal mediatore delle Nazioni Unite, il diplomatico portoghese Bernardino Leon, e sostenuto a gran voce dai Paesi europei, con l’Italia in testa. «Non abbiamo alcun interesse in quel governo. Noi siamo l’unica autorità legittima», ha ribadito più volte. E per giunta con una precondizione molto dura: «Sino a che i signori di Tobruk non licenzieranno il generale Khalifa Haftar e lo consegneranno a noi o a un tribunale internazionale con l’accusa per crimini di guerra, noi non avremo nulla da dire».
Misurata un anno fa non ha avuto timori nel fare precipitare la crisi, attaccando militarmente gli uomini della milizia di Zintan (alleata a Tobruk), che staziona-vano nell’aeroporto internazionale della capitale. È stato uno scontro sanguinoso. Poco seguito dai media internazionali, eppure pesantissimo. La città da allora appare molto più danneggiata che nel 2011. Interi quartieri sono devastati, vuoti di popolazione. Lo stesso vale per i siti e gli impianti petroliferi. Una volta c’erano regole non scritte per i combattenti: tutto lecito, ma non sparare agli impianti. Fu evidente ai terminali di Brega, Ras Lanuf, agli impianti nel deserto e attorno alla capitale. Anche i combattenti più incattiviti sparavano pensando che ci sarebbe stato un futuro, che chiunque avesse vinto sarebbe stato di interesse nazionale mantenere l’integrità della maggior fonte di reddito del Paese. Ora anche quel tabù è saltato. «Ho deciso di andarmene quando ho visto con quale accanimento si sono battuti per l’aeroporto. Non c’è più senso», spiega Ahmad Ibrahimi, un tecnico petrolifero che da tempo sta cercando una via sicura per emigrare. Risulta così difficile comprendere su quali basi Bernardino Leon e i sostenitori della sua mediazione possano con tanta sicurezza annunciare i “continui passi avanti” verso l’accordo tra Tripoli e Tobruk. Neppure la lotta comune contro gli estremisti di Isis (visti in entrambi i campi con simili preoccupazioni) è servita a serrare i ranghi. Segnale del permanere delle differenze è stata anche l’impotenza dimostrata dalla Lega Araba. La sua riunione al Cairo il 19 agosto era mirata a lavorare sull’ipotesi della creazione di una forza d’intervento militare pan araba volta a fermare l’avanzata di Isis. Ma hanno prevalso le incertezze espresse in un comunicato dai toni vaghi e generici, in cui si auspica la necessità dello sforzo comune nella “lotta al terrorismo”. Tuttavia, probabilmente non era possibile alcun risultato diverso. Il mondo arabo resta lacerato dallo scontro ideologico, religioso e politico tra sciiti e sunniti. Lo sforzo bellico dell’Egitto a fianco di Khalifa Haftar è percepito a Tripoli come un grave pericolo. E adesso non è strano che gli avversari sul campo guardino all’eventualità di un intervento armato europeo (ancora molto remoto, a dire il vero) come a una gigantesca opportunità per danneggiare le milizie nemiche. Nel frattempo Isis, battuto a Derna e schierato a Bengasi contro i soldati di Haftar aiutati da una parte delle milizie locali, rilancia su Sirte. Qui è affiancato da una parte delle tribù che erano leali a Gheddafi, che non si schierano per aver aderito alla visione radicale dell’islam militante propagandata dal Califfato, bensì spinte dal desiderio di rivalsa contro Misurata. Si capirà che in questa situazione i tentativi di mediazione internazionale rischiano seriamente di lasciare il tempo che trovano.