La definiscono l’esercitazione più ambiziosa della Nato dalla fine della Guerra Fredda». Una spettacolare dimostrazione di forza nel cuore del Mediterraneo: 36 mila soldati di 37 Paesi (i 28 membri dell’Alleanza atlantica più partner quali Giordania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Georgia nella fase a tavolino, mentre Australia, Austria, Svezia, Finlandia, e persino l’Ucraina partecipano fino in fondo), 140 aerei mobilitati, droni, 60 navi da guerra. Osservatori militari da tutto il mondo. E poi la collaborazione di Unione europea, Osce, Organizzazione dell’unità africana, agenzie umanitarie dell’Onu, Croce Rossa Internazionale. Un’esercitazione che pare sagomata sulla realtà: sotto i colpi del terrorismo e della sovversione, il governo di una nazione fittizia del Nordafrica, una Libia qualsiasi, traballa e chiede aiuto alla Nato. La risposta arriva massiccia e veloce al fine di bloccare sul nascere una pericolosa escalation e ridare capacità di reazione alle forze regolari. Dopo una prima fase virtuale, l’esercitazione da ieri è entrata nel vivo con operazioni aeronavali nel Canale di Sicilia e una concentrazione di reparti di terra in Portogallo. Dall’Italia sono partiti un reggimento di lagunari e uno di paracadutisti.

Le nuove sfide

«Di fronte alle nuove sfide – spiega il vicesegretario generale della Nato, l’ambasciatore statunitense Alexander Vershbow – gli alleati e i loro partner devono essere in grado di muoversi velocemente e con decisione». La sfida principale per Vershbow resta l’atteggiamento russo, sia con l’annessione della Crimea, sia con l’ingresso nel conflitto siriano, ma riconosce che c’è anche un Fronte Sud. «Dalla Siria alla Libia, gli Stati falliti o in via di fallimento hanno aperto le porte a gruppi estremisti e terroristici. Dove si crea un vuoto, l’Isis ha la possibilità di entrare. Noi dobbiamo essere in grado di rispondere oltre le frontiere dovunque i nostri interessi siano minacciati». A fare da padrone di casa, e a osservare compiaciuto l’Alleanza atlantica che flette i muscoli nel Mediterraneo, c’è il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore della Difesa. «L’attuale scenario globale – dice – ha l’effetto domino. Un’esercitazione come questa è importante perché è un deterrente in sè». Il convitato di pietra è evidentemente la Libia. Il generale Graziano soppesa le parole: «Quando e se l’autorità politica decidesse per un intervento di peacekeeping, l’obiettivo sarà sempre lo stesso. Come è accaduto in Iraq, come succede in Afghanistan, noi interveniamo a supporto delle forze locali. Il compito primario è la ricostruzione delle forze di sicurezza. In Libia, dopo l’intervento della Nato nel 2011, non c’è stato il tempo. Avevamo provato a formare dei reparti libici, a Cassino, ed erano anche bene addestrati, ma quando sono rientrati in patria le condizioni erano precipitate». L’aggrovigliarsi delle crisi, intanto, preoccupa i vertici della Nato. «Non si può non guardare agli scenari internazionali, agli Stati che si disintegrano. La progressione del terrorismo nelle varie aree va tenuta sotto controllo. E ci sono gli impliciti rischi in una immigrazione incontrollata», ragiona il generale Graziano. Gli fa eco il generale polacco Petr Pavel, presidente del comitato dei capi di stato maggiore: «Il mondo sta cambiando velocemente, e così accade con le nuove minacce “ibride”». Con la Siria, poi, le due questioni, l’Est e il Sud, si sovrappongono e si confondono. Di qui il monito del comandante supremo della Nato in Europa, il generale Philip Mark Breedlove, statunitense, che scandisce: «Qualunque tentativo di violare la sovranità di uno dei Paesi della Nato comporterà la risposta dei 28 alleati». Ogni riferimento alla Turchia non pare casuale.