La Turchia ha impiegato quattro mesi per dare una svolta alla guerra in Libia da quando il suo Presidente, Recep Tayyip Erdogan, ha annunciato, nel mese di gennaio, l’intervento nel conflitto civile del Paese nordafricano. Nelle ultime settimane ha lanciato l’operazione Peace Storm, attraverso la quale ha impedito la conquista di Tripoli respingendo le forze del feldmaresciallo Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, che è sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e in misura “minore” da Egitto, Russia e Francia. L’intervento turco è stato vitale per il Governo di Accordo Nazionale (GNA), l’unico ufficialmente riconosciuto dalle Nazioni Unite, per recuperare le città costiere di Sabrata e Sorman, vicino al confine tunisino.

La Turchia ha cambiato il paradigma della guerra, ma questo non significa che la guerra sia in una fase conclusiva. Haftar, che il 27 aprile scorso ha sciolto il Parlamento di Tobruk e si è proclamato capo unico del Paese, controlla ancora una buona parte di territorio, dominando gran parte del Sud e dell’Est del Paese. A gennaio, le forze fedeli ad Haftar hanno bloccato i terminali di esportazione, vitali per l’economia del Paese, causando una grossa perdita alle entrate derivanti dal commercio petrolifero (la Libia nel 2011, prima della caduta di Gheddafi, produceva 1,6 milioni di barili al giorno mentre oggi ne pompa solo 95.000). Nei giorni scorsi Haftar aveva annunciato una tregua per il Ramadan, per poi smentirsi attaccando la capitale Tripoli, in una zona in cui sono presenti le residenze delle ambasciate italiana e turca, causando la morte di cinque persone.

Per molti la svolta della guerra civile libica sta avvenendo in cielo. Da una parte, Haftar è supportato da aerei ed elicotteri inviati dagli EAU, oltre la presenza dei mercenari russi e sudanesi; dall’altra, la Turchia ha installato sistemi di difesa antiaerea a Tripoli e a Misurata che operano con il supporto di missili terra-aria dispiegati su fregate turche pattuglianti la costa libica. Inoltre, la Turchia utilizza il sistema di guerra elettronico KORAL, utile per bloccare i radar ed impedire ai sistemi di difesa cirenaici di reagire agli attacchi portati dal GNA. I droni turchi sono diventati l’arma di attacco principale: l’efficacia dell’utilizzo di questo settore da parte turca è stata già dimostrata nel Nord dell’Iraq, nella stessa Turchia per attaccare il gruppo PKK e anche nella guerra siriana.

Nave turga al largo della Libia

Ankara vede il teatro delle operazioni libico come parte di un disegno molto più grande: lo aiuta a rompere il suo isolamento, quasi totale, nel Mediterraneo orientale, poiché ha firmato con il GNA di Tripoli un accordo sulla delimitazione marittima e l’esplorazione degli idrocarburi. Con ciò è chiaro l’intento di sfidare l’asse formato da Israele, Egitto, Grecia e Cipro. Inoltre, Erdogan è impegnato in una competizione geopolitica contro Egitto, EAU ed Arabia Saudita per rafforzare la propria presenza nel Maghreb: portare nella propria sfera di influenza la Libia significa avvicinarsi anche ad Algeria, Tunisia, nonché nel Sahel.

Ci sono, ovviamente, anche problemi più prosaici. Come altri Paesi con interessi in Libia, il conflitto iniziato nel 2011 ha posto fine a contratti molto redditizi. Nel caso turco, si parla di miliardi di dollari persi dalle società di costruzioni operanti nel paese nordafricano. Secondo un rapporto dell’Internatinal Crisis Group, ad oggi, la Turchia è l’unico Paese che è riuscito a negoziare con il GNA un risarcimento per le perdite subite e ne sta discutendo le modalità: fra le altre, si parla di circa quattro miliardi di dollari da depositare in una banca turca come fondo per compensi passati e futuri.

Ankara sarà anche disposta a proteggere questo “investimento” geopolitico con il suo intervento in Libia, ma il pericolo che i costi superino i benefici è molto alto, visto che tale sforzo bellico si sta verificando nel contesto di una crisi economica in Turchia aggravata dall’impatto della pandemia di Coronavirus.

In questo disordine si nota l’assenza delle Nazioni Unite che, ad oggi, non hanno ancora un inviato speciale in Libia, dopo le dimissioni a marzo di Ghassan Salamé; mentre le azioni europee ed italiane a Tripoli sono sempre più in calo. Il vice premier libico, Ahmed Maiteeg, ha dichiarato che l’operazione Irini, lanciata dall’Unione Europea, non è sufficiente per il monitoraggio delle frontiere aeree, marittime e terrestri orientali della Libia.

 

 
Mario Savina, analista geopolitico, si occupa di flussi migratori e dell’area euro-mediterranea. Ha conseguito la laurea in Lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, la laurea magistrale in Sviluppo e Cooperazione internazionale a La Sapienza, dove ha ottenuto anche un Master II in Geopolitica e Sicurezza globale. Attualmente, oltre ad essere redattore del periodico Italiani di Libia, collabora con il centro Studi Roma 3000 e con il webmagazine Affarinternazionali.it.