«I quattro italiani rapiti? Ma non era una vicenda già risolta? Ah no? Debbo controllare allora». Jamal Zoubia, direttore del dipartimento mass media del Governo di Tripoli – quello sostenuto dai Fratelli Musulmani – è interdetto. Sembra contagiato dal virus del silenzio sulla sparizione di Gino Pollicardo, 55 anni, Fausto Piano, 60, Filippo Calcagno, 65, e Salvatore Failla, 47, i quattro tecnici della Bonatti sequestrati il 19 luglio a poca distanza da Mellitah, l’impianto dal quale parte il gasdotto Greenstream che passa sotto il Mediterraneo e sfocia a Gela. «Quanti mesi fa è accaduto?», chiede Zoubia, disarmante. Poi la memoria gli ritorna. «Ah sì, quelli che furono presi vicino a Mellitah», si ricompone. «Prenderò informazioni», assicura.
La sua ostentata «distrazione» è quanto meno singolare. Il primo ministro del governo della capitale, Khalifa al Ghweil, all’epoca fu a dir poco tempestivo nel definire gli autori del rapimento «criminali intenzionati a turbare le relazioni che vogliamo instaurare con l’Italia». Il premier si precipitò a garantire di aver «attivato» la sua intelligence «perché li consideriamo nemici della tranquillità della Libia», e rimproverò a Roma una spiccata «riluttanza a collaborare» con Tripoli.
Nelle stesse ore Alaa al Queck, portavoce dell’operazione Fajr Libya, l’alleanza delle milizie islamiste che controlla la città, prometteva: «Non siamo stati noi a rapirli, si trovano nel sudovest del Paese, fra dieci giorni saranno liberi». Dalle informazioni raccolte dagli 007 italiani affiorava il ritratto di un gruppo di malviventi armati attivo nell’area di Zuwara, una banda dedita al contrabbando e al traffico di armi, connotata da pallide convinzioni islamiste e interessata a un corposo riscatto. Il 24 luglio, in un’audizione al Comitato Parlamentare di controllo sull’intelligence, il sottosegretario ai servizi di sicurezza Marco Minniti parlò apertamente di un rapimento «a scopo di estorsione». Due giorni dopo gli 007 confidarono che avevano «un buon contatto».
Dopo il ministro dell’interno italiano Angelino Alfano, anche il primo ministro libico Ghweil escludeva l’ipotesi di uno scambio dei tecnici italiani con gli scafisti arrestati in Sicilia, ma affacciava una possibile complicazione, annotando che con il passare dei giorni avrebbero «potuto inserirsi formazioni ulteriori che potrebbero produrre rallentamenti». Era un accenno molto sfumato al pericolo che gli ostaggi fossero «ceduti» a gruppi terroristici di matrice islamica, primo fra tutti l’Isis. Da allora sono trascorsi cinque mesi di tombale silenzio, interrotto solo ieri dall’irrompere su Facebook di vecchie foto scattate in luglio alla moglie di Pollicardo, Emanuela Orellana, e al nipote Gino Del Medico, figlio di Marisa, sorella dell’ostaggio.
Ma i contatti sottotraccia sono continuati. Al tenere vivo un canale di dialogo ha contribuito la circostanza che si sono intensificati gli sforzi dei tunisini per la liberazione di alcuni loro pescatori arrestati in Libia. Del Medico, che non si sottrae al compito di parlare con i giornalisti a nome della famiglia, non ha dubbi sul fatto che «il governo italiano, al cento per cento, stia facendo tutto il possibile, anche se a livello operativo noi non siamo informati di nulla». «Il recente accordo – annota – per il varo di un governo di unità nazionale potrebbe aiutare. Noi comunque abbiamo piena fiducia che il nostro esecutivo abbia messo sul campo tutte le forze a disposizione». L’unica incognita sono le pressioni francesi a favore di un intervento militare non concordato con i libici , una riedizione del blitz che segnò l’inizio della fine per Muammar Gheddafi e la frantumazione del Paese.