All’inizio sembrò tutto facile, semplice da comprendere e anche raccontare. Una rivoluzione in bianco e nero, senza troppe zone grigie. Addirittura, più che in Tunisia o Egitto, in Libia c’erano evidentemente i buoni e i cattivi. «Vogliamo libertà, eguaglianza, la fine della dittatura, la lotta alla corruzione nel circolo di potere attorno a Gheddafi, la scomparsa della polizia segreta che perseguita anche i nostri sogni. E vogliamo opportunità di lavoro, la possibilità di viaggiare quando e dove scegliamo noi. In poche parole, vogliamo essere, vivere come da voi in Europa», spiegava il 19 febbraio 2011 allegra, eccitata dall’idea di poter essere finalmente artefice di se stessa, Salwa Bughaighis, carismatica esponente del «comitato degli avvocati», che da due giorni cercava di dare un senso politico alle rivolte che infiammavano Bengasi.

Un personaggio affascinante e tragico Salwa. Lei e il marito, Essam al-Ghariani, erano infaticabili. Intellettuali coraggiosi e generosi al servizio di ciò che ritenevano giusto, ragionevole e dunque necessario. Compilavano le liste dei giovani spariti nei carceri, rapiti dalle squadracce di Gheddafi per le strade, si impegnavano a stilare una progetto di leggi provvisorie per gestire il vuoto di potere generato dal caos, cercavano rapporti e aiuti internazionali. Nel contempo ricevevano i giornalisti stranieri, li ospitavano in casa. «Costruiamo la nuova Libia», dicevano sorridenti nonostante le infinite, lunghissime giornate (e nottate) di attività. Il 25 giugno 2014 una cellula si estremisti islamici ha ucciso Salwa di fronte a casa con più colpi di pistola mirati alla testa. Non piacevano le sue convinzioni laiche, i contatti con l’estero, la lotta contro il velo imposto alle donne, l’impegno per il ritorno allo spirito primo della rivoluzione. Essam invece è stato rapito. A Bengasi sono tutti convinti sia stato torturato e a sua volta assassinato.

Vale la pena ricordarli Salwa e Essam. La loro parabola incarna più di altre la triste meteora della rivoluzione libica, che vede oggi tanti tra gli stessi ex attivisti dichiarare in modo contrito che «si stava meglio ai tempi di Gheddafi». Ma con una domanda: doveva per forza finire in questo modo? Le risposte possono essere molteplici, in una rosa che comprende il nuovo vento di scetticismo diffuso nei confronti dei valori democratici (così come esauriti nelle «primavere arabe») e la convinzione che in Medio Oriente siano necessari «uomini forti» per tenere a bada Isis, sino agli inguaribili ottimisti certi che «comunque nella storia ci sono sempre le controrivoluzioni e occorre tempo perché i cambiamenti si stabilizzino».

Ciò che possiamo dire, per aver seguito gli avvenimenti di allora «dal campo», è che ben presto, sin dalle prime settimane euforiche e confuse dopo la fuga delle autorità da Bengasi, i «buoni» e «cattivi» sul palcoscenico libico iniziarono a confondersi e annacquarsi a vicenda. Gli argomenti in merito sono tanti. Ne citiamo alcuni. Primi tra tutti la violenza diffusa e gratuita, la stupidità litigiosa, l’incapacità di darsi un’efficiente struttura militare da parte delle varie brigate insurrezionali. I ribelli semplicemente erano predoni: al meglio bande tribali, al peggio criminali in cerca di bottino, facilmente influenzabili da qualsiasi ispirazione radicale, incapaci persino di pensare che tutte quelle munizioni sprecate sparando inutilmente in aria per festeggiare, o soltanto fare rumore, poi sarebbero mancate al momento dello scontro con il nemico. Ragazzini viziati, pronti a chiedere aiuto alla Nato quando si trovavano in pericolo, ma altrettanto proni a minacciare e invocare la vendetta di Allah se l’aiuto era considerato inefficiente e Gheddafi stava riguadagnando terreno. Così minacciavano con i mitra spianati noi giornalisti occidentali verso la metà di marzo, quando Gheddafi aveva finalmente racimolato le sue truppe (tanti mercenari tribali pagati a suon di petrodollari), che da Sirte marciavano verso oriente. «Siete alleati del dittatore, vi uccidiamo tutti!», gridavano. Il 19 marzo i jet francesi e britannici fermavano la colonna lealista alle porte di Bengasi causando decine e decine di morti. Se non ci fosse stata la Nato, la rivoluzione sarebbe finita quel giorno. I suoi dirigenti stavano già scappando verso l’Egitto. Fu però stupefacente il comportamento delle milizie ribelli. Invece di inseguire i nemici in rotta verso Ajdabia e i terminali petroliferi di Brega e Ras Lanuf (dove oggi si sta attestando Isis), si fermavano per lo sciacallaggio dei mezzi carbonizzati e i cadaveri riversi sull’asfalto. Fu poi necessario ancora l’intervento dei jet Nato per scacciare i resti delle colonne lealiste indietro verso occidente. Lo stesso avvenne durante l’assedio di Misurata e altri, compreso quello di Tripoli in agosto. E persino nei giorni finali dell’attacco su Sirte a metà ottobre. Il fronte lealista si era sfaldato. Ma i ribelli ancora non erano in grado di confrontarlo. A Sirte la grande maggioranza di loro era impegnata nel saccheggio delle abitazioni private. I pick up arrivavano carichi di munizioni e ripartivano portando via elettrodomestici, mobili, vestiti. Il linciaggio di Gheddafi non fu altro che la ripetizione particolarmente cruenta di quei comportamenti. E anche in quell’occasione, se i jet francesi non avessero tirato i missili destinati a fermare il convoglio del rais in fuga, probabilmente i ribelli se lo sarebbero lasciati scappare sotto il naso. Quello stesso giorno alcuni di loro fecero irruzione nel villaggio natale del rais, in segno di sfregio e offesa suprema estrassero i resti di sua madre e altri parenti seppelliti nel cimitero locale.

Dopo marzo fu anche evidente anche la caducità intrinseca agli argomenti fondamentali della propaganda rivoluzionaria. Piacesse o meno, Gheddafi non era quella sorta di dittatore alieno, isolato e illegittimo che cercavano di presentare. Tutt’altro. In quattro decadi di governo aveva costruito un complicato sistema di equilibri tra tribù, gruppi di potere urbani e apparati amministrativi dello Stato in grado di elidersi a vicenda e garantiti unicamente dal loro rapporto di sottomissione diretta al rais. In buona sostanza, c’erano libici che ancora credevano in lui e temevano che la sua scomparsa potesse impoverirli. Così, quando le milizie ribelli cominciarono ad avvicinare Sirte, Tripoli, Bani Walid, e altre zone tribali lealiste tipo Tarhunah e le oasi del Fezzan come Kufrah e Sabha, la battaglia non fu più di liberazione nazionale, bensì vera e propria guerra civile. Ci furono fucilazioni, devastazioni, rapine, violenze di ogni tipo contro civili inermi. Emerse allora un’altra caratteristica della Libia moderna, così come definita dall’invasione italiana del 1911 sulle ceneri dell’antica amministrazione ottomana: le profonde differenze ancora ben vive tra Cirenaica arabo-islamica, Tripolitania mista tra élite laica urbana e identità berbera, oltre alle radici africane e addirittura sub-sahariane delle tribù Tuareg nel sud. I ribelli si sentivano protetti dalla superiorità bellica della Nato e non esitarono a prendere a calci quelle identità separate. Dopo aver liberato Misurata, attaccarono i centri urbani abitati da africani, non esitarono ad applicare la pulizia etnica tra i circa 100 mila residenti di Tawargha, procedettero con omicidi mirati, incendiarono le loro case, li obbligarono a fuggire in massa verso il Sahara.
 
Nella tracotanza ebbra di vittorie, pagate tutto sommato a poco prezzo, i ribelli ebbero l’accortezza di non distruggere i pozzi e gli impianti energetici. Sia i filo-Gheddafi, che i combattenti della rivoluzione erano ben consapevoli che il futuro economico restava in quelle risorse. Ma fu uno dei pochi punti a loro favore. In seguito non seppero elaborare i compromessi e il patto sociale necessari per spartirsene i proventi. A pensarci bene, le ragioni sono in fondo le stesse che hanno minato l’intero iter della defenestrazione di Gheddafi: è stata una rivoluzione assistita dall’alto, garantita dall’ombrello Nato. È mancato quel processo di selezione naturale dei suoi dirigenti che, spesso in modo cruento e impietoso, accompagna i sommovimenti sociali di questo tipo. Il fatto che su praticamente tutti i fronti le brigate tribali e regionali non siano state sconfitte ha facilitato il fiorire di una pletora di interessi locali, spesso divergenti e persino incompatibili gli uni con gli altri. Ai tempi di Gheddafi il potere era fermamente nelle sue mani. Il verticismo restava totale, nonostante la sua propaganda dicesse esattamente l’opposto. Oggi la frammentazione delle milizie e del potere politico è disperante. E di questo «crollo dello Stato» approfitta Isis.