All’inizio sembrò tutto facile, semplice da comprendere e anche raccontare. Una rivoluzione in bianco e nero, senza troppe zone grigie. Addirittura, più che in Tunisia o Egitto, in Libia c’erano evidentemente i buoni e i cattivi. «Vogliamo libertà, eguaglianza, la fine della dittatura, la lotta alla corruzione nel circolo di potere attorno a Gheddafi, la scomparsa della polizia segreta che perseguita anche i nostri sogni. E vogliamo opportunità di lavoro, la possibilità di viaggiare quando e dove scegliamo noi. In poche parole, vogliamo essere, vivere come da voi in Europa», spiegava il 19 febbraio 2011 allegra, eccitata dall’idea di poter essere finalmente artefice di se stessa, Salwa Bughaighis, carismatica esponente del «comitato degli avvocati», che da due giorni cercava di dare un senso politico alle rivolte che infiammavano Bengasi.
Vale la pena ricordarli Salwa e Essam. La loro parabola incarna più di altre la triste meteora della rivoluzione libica, che vede oggi tanti tra gli stessi ex attivisti dichiarare in modo contrito che «si stava meglio ai tempi di Gheddafi». Ma con una domanda: doveva per forza finire in questo modo? Le risposte possono essere molteplici, in una rosa che comprende il nuovo vento di scetticismo diffuso nei confronti dei valori democratici (così come esauriti nelle «primavere arabe») e la convinzione che in Medio Oriente siano necessari «uomini forti» per tenere a bada Isis, sino agli inguaribili ottimisti certi che «comunque nella storia ci sono sempre le controrivoluzioni e occorre tempo perché i cambiamenti si stabilizzino».
Ciò che possiamo dire, per aver seguito gli avvenimenti di allora «dal campo», è che ben presto, sin dalle prime settimane euforiche e confuse dopo la fuga delle autorità da Bengasi, i «buoni» e «cattivi» sul palcoscenico libico iniziarono a confondersi e annacquarsi a vicenda. Gli argomenti in merito sono tanti. Ne citiamo alcuni. Primi tra tutti la violenza diffusa e gratuita, la stupidità litigiosa, l’incapacità di darsi un’efficiente struttura militare da parte delle varie brigate insurrezionali. I ribelli semplicemente erano predoni: al meglio bande tribali, al peggio criminali in cerca di bottino, facilmente influenzabili da qualsiasi ispirazione radicale, incapaci persino di pensare che tutte quelle munizioni sprecate sparando inutilmente in aria per festeggiare, o soltanto fare rumore, poi sarebbero mancate al momento dello scontro con il nemico. Ragazzini viziati, pronti a chiedere aiuto alla Nato quando si trovavano in pericolo, ma altrettanto proni a minacciare e invocare la vendetta di Allah se l’aiuto era considerato inefficiente e Gheddafi stava riguadagnando terreno. Così minacciavano con i mitra spianati noi giornalisti occidentali verso la metà di marzo, quando Gheddafi aveva finalmente racimolato le sue truppe (tanti mercenari tribali pagati a suon di petrodollari), che da Sirte marciavano verso oriente. «Siete alleati del dittatore, vi uccidiamo tutti!», gridavano. Il 19 marzo i jet francesi e britannici fermavano la colonna lealista alle porte di Bengasi causando decine e decine di morti. Se non ci fosse stata la Nato, la rivoluzione sarebbe finita quel giorno. I suoi dirigenti stavano già scappando verso l’Egitto. Fu però stupefacente il comportamento delle milizie ribelli. Invece di inseguire i nemici in rotta verso Ajdabia e i terminali petroliferi di Brega e Ras Lanuf (dove oggi si sta attestando Isis), si fermavano per lo sciacallaggio dei mezzi carbonizzati e i cadaveri riversi sull’asfalto. Fu poi necessario ancora l’intervento dei jet Nato per scacciare i resti delle colonne lealiste indietro verso occidente. Lo stesso avvenne durante l’assedio di Misurata e altri, compreso quello di Tripoli in agosto. E persino nei giorni finali dell’attacco su Sirte a metà ottobre. Il fronte lealista si era sfaldato. Ma i ribelli ancora non erano in grado di confrontarlo. A Sirte la grande maggioranza di loro era impegnata nel saccheggio delle abitazioni private. I pick up arrivavano carichi di munizioni e ripartivano portando via elettrodomestici, mobili, vestiti. Il linciaggio di Gheddafi non fu altro che la ripetizione particolarmente cruenta di quei comportamenti. E anche in quell’occasione, se i jet francesi non avessero tirato i missili destinati a fermare il convoglio del rais in fuga, probabilmente i ribelli se lo sarebbero lasciati scappare sotto il naso. Quello stesso giorno alcuni di loro fecero irruzione nel villaggio natale del rais, in segno di sfregio e offesa suprema estrassero i resti di sua madre e altri parenti seppelliti nel cimitero locale.