La Casa Bianca: “Agiremo ogni volta che verrà individuata una minaccia diretta”. Renzi: “Roma farà la sua parte con gli alleati”

ROMA. Nella stessa giornata in cui Italia e Stati Uniti si confrontano sullo spionaggio del governo di Silvio Berlusconi, ponendo la questione di principio sul rispetto della sovranità nazionale, i due paesi cercano insieme una difficile intesa sul modo di affrontare la più grave minaccia terrorista mai sorta nel Mediterraneo: il radicamento del Califfato in Libia.
Il tempo per la diplomazia si sta rapidamente consumando. Anche ieri il parlamento di Tobruk ha rinviato il voto sull’esecutivo unitario nato dalla mediazione delle Nazioni Unite e ormai nelle capitali occidentali si spegne la fiducia nel successo dell’iniziativa benedetta dall’Onu. Così Washington, Roma, Parigi e Londra stanno lavorando freneticamente a una soluzione alternativa, un piano B con un solo punto certo: l’espansione del feudo jihadista in Libia va fermata, anche a costo di rassegnarsi a una divisione sostanziale del paese.
Brett McGurk, l’uomo a cui Barack Obama ha affidato la lotta contro lo Stato Islamico, è tornato a sottolineare la preoccupazione della Casa Bianca. Gli americani non sono disposti ad assistere alla crescita delle brigate libiche con la bandiera nera, che “tentano di attrarre quanti più combattenti stranieri” dal Maghreb e dall’Africa centrale. Per niente intimoriti dal bombardamento statunitense della scorsa settimana, i miliziani islamici hanno attaccato di nuovo le installazioni petrolifere distruggendo due grandi depositi di greggio a Sida. L’obiettivo di queste incursioni è chiaro: azzerare l’unica risorsa che finanzia le istituzioni libiche rivali e le formazioni locali che si oppongono al Daesh. La premessa per costruire il caos totale e imporre il dominio del Califfato.