Se prima o poi ci troveremo obbligati a «mettere gli scarponi sul terreno», oppure se riusciremo ad evitarlo, in Libia sarà giocoforza anche sparare. Non solo per tutelarei nostri interessi, ma soprattutto per salvaguardare la sicurezza dei nostri militari.

Mentre sta per prendere le mosse in Libia un intervento in cui rivendichiamo un ruolo guida, sarà bene cercare di fare chiarezza su cosa si debba intendere per peacekeeping. In un contesto geostrategico in cui alle guerre globali si sono sostituiti conflitti localizzati dove si riflettono interessi più ampi, l’importanza dello strumento militare di pace in politica estera è di molto cresciuta. Sia sul piano della proiezione di potenza che della promozione attiva dell’interesse nazionale.

Per buona parte degli anni della Prima Repubblica, grazie alla perdurante memoria di una guerra tragicamente perduta e all’influenza di una cultura fortemente antimilitarista (cattolica e non solo), la nostra partecipazione è rimasta a lungo poco più che simbolica. Negli anni Ottanta la situazione è cambiata: dal primo intervento in Libano siamo arrivati a schierare quasi tredicimila uomini e il peacekeeping è diventato una componente fondamentale dell’azione internazionale dell’Italia.

Le nostre operazioni di pace, si è detto, prescindono dall’uso della forza: sono sì composte di militari, ma il loro compito non è tanto di imporre soluzioni quanto di vigilare sul rispetto di quelle adottate. Si tratta, soprattutto, di sanare le ferite inferte dai conflitti e di rendere stabile la pace, costruendo strade, scuole ed ospedali, aiutando la ricostruzione delle società civili e distribuendo caramelle ai bambini. Le armi hanno una funzione residuale, evitando per quanto possibile di sparare un colpo. Un impiego accorto delle risorse, e una dose di fortuna, hanno consentito a lungo di contenere le perdite delle nostre missioni entro limiti modesti, rafforzando l’idea che la visione italiana del peacekeeping fosse confermata dall’esperienza sul terreno. Il tutto ha consentito di superare la diffidenza di un Parlamento tetragono a cogliere il nesso fra politica estera e peacekeeping e interprete dell’ostilità pregiudiziale di gran parte dell’opinione pubblica, verso tutto ciò che potesse anche di lontano evocare l’idea di guerra.

Peacekeeping, peace enforcement: sono molti i termini usati per definire i livelli di forza richiesti nelle diverse situazioni. Aldilà delle precisazioni semantiche i confini fra gli uni e gli altri sono labili, ma tutti partono dal principio che — se da un lato è importante compiere tutte le azioni che caratterizzano l’azione italiana — dall’altro è spesso necessario fare ricorso alla forza e sparare non è antitetico al concetto di pace, ma ne può costituire una premessa indispensabile. Abbiamo per molti anni continuato raccontarci una favola bella, secondo cui è possibile fare politica estera attraverso lo strumento militare dando una lettura solo parziale delle responsabilità che ne conseguono. Fino all’Iraq siamo riusciti più o meno a cavarcela. In Afghanistan il salto di qualità, testimoniato da un numero più alto di perdite, ha cominciato a farsi evidente. Ora questa lettura mostra pericolosamente la corda.

Non è una via obbligata. La Germania ha solo da poco, quando ha deciso di intervenire nell’ ex Africa Occidentale francese, rinunciato a una politica che vietava per ragioni storiche comprensibili qualunque impiego di suoi militari all’estero, limitandosi ad operazioni di supporto. Volendo, potremmo seguire una strada analoga: abbiamo nei Carabinieri una forza armata che è al tempo stesso uno strumento di soft power straordinario, che non ha pari al mondo e tutti ci chiedono. Impiegandolo in via esclusiva, diverremmo il riferimento pressoché obbligato per tutte le operazioni di consolidamento della pace a valle del controllo armato.

Ne guadagneremmo in influenza e metteremmo fra le altre cose a tacere lo stereotipo negativo che, piaccia o non piaccia, continua a caratterizzare la percezione in molti partner della nostra dimensione puramente militare. Ne uscirebbe ridimensionata in parte la nostra capacità di proiezione di potenza, che personalmente riterrei più che compensata da altri vantaggi in termini di credibilità complessiva. Per un intreccio complesso di ragioni, ho però l’impressione che non è una alternativa che saremmo disposti a perseguire; se così stanno le cose, non possiamo più permetterci di illudere, e illuderci, sul fatto che il peacekeeping italiano e l’uso a fini di pace della forza siano due dimensioni separate.

Sia se prima o poi ci troveremo obbligati a «mettere gli scarponi sul terreno», sia se riusciremo ad evitarlo, in Libia sarà giocoforza anche sparare. Non solo per tutelare i nostri interessi, ma soprattutto per salvaguardare la sicurezza dei nostri militari. Governo, Parlamento ed opinione pubblica farebbero bene a prenderne atto e, se ciò dovesse risultare inaccettabile, pensare a vie alternative prima che sia troppo tardi.