Verso Sirte, regno dell’Isis in Libia. Civili in fuga, esecuzioni e noi nel mirino. «Noi pronti ad attaccare l’Europa»

ABU GHREIN (Libia centrale) – Su uno dei muri di cinta del porto di Sirte troneggia una scritta in arabo dai caratteri dorati sormontata dall’ormai classica bandiera nera con cui si firmano i militanti del «Califfato». «Da qui siamo pronti ad andare in Europa», si legge. Una promessa tetra e minacciosa, un urlo di battaglia che i responsabili della Brigata 166, oggi diventata il fiore all’occhiello per gli eredi della rivoluzione del 2011 tra le milizie di Misurata, non esitano ad amplificare, aggiungendo motti colorati e violenti ai rari giornalisti che vengono a trovarli.

«Sono i civili che scappano dalle zone controllate da Isis a raccontarci di quello slogan. Lo vedono tutti al porto, sta davanti ai moli dei pescherecci. Presto voi italiani in particolare vi troverete a dover fare i conti con i mukarsan, i pirati. Da Sirte al porticciolo di Ben Jawad i jihadisti controllano saldamente 130 chilometri di costa e da qui partiranno da predoni del mare come sino a due secoli fa. Sappiamo che dispongono di una decina di motoscafi leggeri in vetroresina con potenti fuoribordo. Sei giorni orsono sono arrivati oltre 250 nuovi volontari dalla costa tunisina. Combattenti e marinai, sono sbarcati a Sirte da un piccolo cargo che trasportava benzina», dice Yussef Mohammad Amran, un miliziano barbuto, ridanciano e dallo stomaco prominente, che lavora per l’intelligence della 166.
Luogo dell’incontro: Abu Ghrein, un pugno di casupole nel deserto piatto, vuoto e polveroso che domina questo lembo di Sahara proteso verso il Mediterraneo. Siamo arrivati qui martedì percorrendo da Tripoli circa 400 chilometri sul tracciato della vecchia Balbia con l’intento specifico di vedere come si combatte contro Sirte, l’ex roccaforte di Gheddafi dove lui venne linciato il 20 ottobre 2011 assieme ai fedelissimi, ma che dal 28 maggio dell’anno scorso è diventata nei fatti la capitale di Isis in Libia. Un viaggio utile a cogliere la frammentazione del Paese. Da Tripoli a Misurata si contano infatti solo cinque posti di blocco lungo la costa, miliziani distratti e controlli superficiali. E’ la zona relativamente più sicura della Tripolitania, con le milizie di Misurata che fanno da padrone. Eppure, già 20 chilometri verso l’interno le cose cambiano. Le tribù pro-Gheddafi verso Tarhouna e Bani Walid di recente si sono aperte a Isis. Chi vi si addentra è automaticamente un sospetto. Ma è superato Misurata che il paesaggio diventa di guerra.
Tawergha, la cittadina che una volta era abitata da figli delle tribù africane fedeli al dittatore e nell’agosto 2011 fu vittima di una vasta pulizia etnica da parte dei ribelli, resta completamente abbandonata: edifici bruciati, case devastate dai proiettili, piloni dell’alta tensione divelti. Più oltre i controlli si fanno accurati, il traffico è quasi ridotto a zero. Gli uomini della 166 sono tutti in mimetica e tengono i fucili pronti. Il nostro viaggio si ferma a 120 chilometri da Sirte. «Abu Ghrein è diventato la nostra prima linea dopo che i volontari di Isis arrivati soprattutto dalla Tunisia, ma anche algerini, afghani, e siriani sono riusciti ad impadronirsi di Sirte con veloci raid dal deserto», spiega il 67enne Abdullah Mohammad, ufficiale anziano tra le poche decine di miliziani al presidio. In tutto 1.500 volontari di Misurata sono dispiegati sul fronte orientale. Lui e i suoi uomini non esitano comunque ad ammettere che il settore è bloccato e quasi dormiente. Più che combattere, ci si sorveglia a distanza. Nulla di paragonabile ai massacri che insanguinano i campi di battaglia in Siria e Iraq. «Da giugno 2015 non abbiamo sofferto alcuna vittima in questa zona. Ci limitiamo a controllare il territorio ed evitare che Isis utilizzi i civili per infiltrarsi sino a Misurata. Quasi ogni notte avanzano per una sessantina di chilometri dalle loro linee. Avvengono scaramucce, spari da lontano o poco più», continua.
La novità delle ultime settimane è che i circa 4.000 militanti di Isis a Sirte dimostrano di essere a corto di carburante e persino cibo. Hanno provato a far arrivare alcune autobotti di benzina e persino jeep cariche di fusti da Bani Walid attraverso le piste nel deserto. Per lo più sono stati individuati e catturati o uccisi. Però i miliziani lamentano la povertà dei loro mezzi. «Facciamo del nostro meglio. Mancano munizioni da 7,62 millimetri per i nostri Kalashnikov. Vorremmo armi più leggere e di alta precisione per i cecchini. I jihadisti ne posseggono di ottime. Soprattutto dispongono di visori notturni molto migliori. Se voi italiani e la Nato ascoltaste le nostre richieste la guerra sarebbe già vinta», dice l’ufficiale Mohammad al Baiudi.
La calma tesa che domina sul campo di battaglia non fa tuttavia giustizia delle sofferenze dei civili. I pochi che ancora risiedono a Sirte raccontano di «esecuzioni di piazza, punizioni esemplari, flagellazioni e soprattutto decapitazioni pubbliche». In circa due ore trascorse al posto di blocco più avanzato abbiamo incontrato quattro auto di famiglie in fuga. Nessuno vuole essere fotografato. «Non c’è più vita a Sirte. Negozi, banche, edifici pubblici sono serrati. Rimane meno del 20 per cento degli abitanti. Mancano cibo, acqua, benzina, l’elettricità arriva solo a tratti», afferma il 45enne Abdel Salam con a bordo la moglie completamente velata e 4 bambine piccole. Ahmad Ali, 46 anni, offre una testimonianza agghiacciante: «Un venerdì pomeriggio dopo le preghiere ho visto decapitare in centro 18 persone: ex dipendenti della municipalità e poliziotti. Su un’auto dei carnefici ho riconosciuto gli slogan di Boko Haram. Un mio amico è svenuto per la flagellazione cui era stato condannato perché scoperto a fumare».