Non ricordo una clamorosa omissione da parte della stampa italiana come quella relativa alle dichiarazioni rilasciate in un’intervista da Barack Obama sulla Libia, in cui il presidente Usa, pur a posteriori, esprimeva forti critiche nei confronti degli europei e in primis verso Francia e Gran Bretagna per la guerra alla Libia di Gheddafi. Non che io avessi in simpatia il despota, ma era evidente a tutti coloro che minimamente masticassero di politica, che il rischio di quella sciagurata iniziativa era quello di creare una situazione ingovernabile nel Mediterraneo.
Giuseppe Cavalli, gicavalli@tin.it
Caro Cavalli,
L’articolo di Jeffrey Goldberg, apparso sull’ultimo numero dell’Atlantic, è in realtà una lunga confessione di Barack Obama, frutto di numerose conversazioni con uno degli intervistatori preferiti sulla politica estera della sua presidenza. La parte relativa alla Libia è breve ed è anche, per molti aspetti, la meno convincente. Obama ricorda l’avanzata di Gheddafi verso Bengasi, la crudeltà delle sue intenzioni («li ammazzeremo tutti come topi»), le insistenze di quelli fra i collaboratori della Casa Bianca che lo sollecitavano ad agire. Dice di avere avuto molti tentennamenti e di avere ceduto, alla fine, perché esistevano potenze europee e del Golfo, molto più coinvolte nella crisi libica, che erano pronte a intervenire per proclamate ragioni umanitarie. Lascia intendere di essere stato deluso dalla mancanza, nella loro politica, di qualsiasi piano per la fase successiva alla morte di Gheddafi, e usa parole dure contro i suoi alleati europei. Del presidente francese Nicolas Sarkozy dice che aveva un solo desiderio: ostentare il potere aereo della Francia. Del Primo ministro britannico David Cameron dice, un po’ cripticamente, che dopo l’avvio della operazione si lasciò distrarre da altre faccende. Non dice tuttavia che anche gli Stati Uniti iniziarono le operazioni senza avere la minima idea di ciò che sarebbe stato necessario fare dopo il crollo del regime. Molto più lunga e interessante, invece, è la parte della confessione che concerne la Siria del 2013, quando le forze armate siriane usarono il gas nervino sarin contro un sobborgo di Damasco conquistato dai ribelli. Un anno prima Obama aveva dichiarato che l’uso dei gas sarebbe stato una linea rossa: se Bashar Al Assad l’avesse attraversata, gli Stati Uniti avrebbero reagito con le bombe. A tutta prima, dopo il massacro chimico di alcune centinaia di cittadini siriani, il presidente sembrò deciso a confermare l’impegno, ma in un secondo momento, dopo una dolorosa riflessione, decise di chiedere un voto al Congresso. Nella sua lunga conversazione con Goldberg, Obama dice di essere gradualmente giunto alla conclusione che ogni intervento militare degli Stati Uniti deve essere giustificato dall’esistenza di una concreta minaccia contro gli interessi americani. Dice anche che il giorno in cui prese la decisione di non bombardare la Siria fu il «giorno della libertà», quello in cui riuscì a sbarazzarsi dell’arrogante pregiudizio secondo cui l’America è credibile soltanto se colpisce un nemico, anche quando non è strettamente indispensabile: «Gettare bombe, solo per dimostrare che siamo capaci di farlo, è stupido». Obama non dice, ma è evidente, che alle origini di quella svolta sulla concezione del ruolo americano nel mondo, vi fu l’esperienza libica.
Sergio Romano