La presenza dei militari discrediterebbe ancora di più il già delegittimato governo e rafforzerebbe la presenza Isis

È giunto il momento di dirlo nella maniera più esplicita: sarebbe un grave errore, in un contesto come l’attuale, inviare migliaia, anzi decine di migliaia di soldati in Libia solo perché ce lo ha chiesto un governo insediato all’uopo. La presenza di quei militari getterebbe una pesante ombra di ulteriore discredito sul già delegittimato governo libico e, anziché debellarla, rischierebbe di rafforzare la presenza Isis che fa capo alla città di Sirte. La benedizione dell’Onu non sarebbe sufficiente a trasformare tale esecutivo in qualcosa di diverso da un «governo fantoccio». E non esistono precedenti storici di governi di tal fatta che non abbiano aggiunto caos al caos e non abbiano trascinato nel baratro coloro che li avevano istituiti. Nel 1963 gli americani favorirono, nel Vietnam del Sud, la cruenta deposizione di Ngo Dinh Diem, ordita da Nuguyen Cao Ky, che due anni dopo assunse la guida di una giunta militare. Il nuovo capo del governo suggerì un’intensificazione delle offensive contro il Nord e spalancò le porte ai «consiglieri militari» statunitensi che nel 1969 arrivarono ad essere 550mila. L’effetto fu che la guerra di Saigon contro il Vietnam del Nord e i partigiani Vietcong assunse dimensioni immani. Cao Ky, per parte sua, si dedicò con solerzia a eliminare il rivale Nguyen Chanh Thi (anch’egli membro della giunta) e con le sue politiche repressive scatenò una rivolta buddista che sortì l’effetto di dare una luce pacifista alla causa dei comunisti del Nord. Questi ultimi presero vigore, passarono all’offensiva e travolsero americani e sudvietnamiti.

Il «fantoccio» — Cao Ky che nel frattempo era diventato vicepresidente per poi, nel ’71, essere fatto fuori — fece ancora in tempo, al momento dell’umiliante resa statunitense (1975), a tornare alla ribalta per proporre di «riprendere la lotta». Nessuno per fortuna lo ascoltò e l’America lo accolse a Costa Mesa, in California, dove gli consentì di aprire un negozio di liquori. Impresa in cui, per la prima volta nella sua vita, ebbe successo.

La sua storia è paradigmatica di tutte le leadership imposte dall’esterno per rendere più agevole un intervento militare. Ruolo assegnato stavolta a Fayez Serraj. Il 17 dicembre 2015 «è nato» il governo di conciliazione libico voluto dall’inviato Onu Martin Kobler e presieduto da Serraj che dovrebbe porsi al di sopra delle due fazioni che comandano a Tripoli e a Tobruk. Secondo le Nazioni Unite, da quel giorno di dicembre, quello di Serraj è l’unico governo «legittimo» della Libia. Anche se tutto è ancora sulla carta. Ed è proprio sulla carta che è scoppiata la prima grana allorché il «nostro» uomo formò un gabinetto da record con 32 ministri, 64 sottosegretari e 9 consiglieri presidenziali: 105 persone. A seguito di una complicata mediazione tra Tobruk e Tripoli venne nominato ministro degli Esteri Marwan Ali Abu Sraiweil appartenente ad una famiglia importante della Tripolitania (con qualche interesse in Cirenaica). Molti rilevarono un qualche sbilanciamento. Si decise allora di nominare altri due pari grado, uno alla Cooperazione internazionale e un altro per gli Affari arabi e africani. Fioccarono ironie e polemiche da parte di tutti, ma proprio tutti gli osservatori. Alla fine si optò per una drastica riduzione dei titolari di dicastero. I quali in ogni caso, per settimane e settimane, dovevano restarsene a Tunisi dal momento che nella capitale libica non erano ben accetti. Arriveranno a Tripoli alla spicciolata, dopo una lunga discussione su come raggiungere la loro «sede naturale»: in aereo o in nave? Qual è il mezzo più sicuro? Alla fine si è optato per l’aereo ma a Tripoli è divampata una battaglia attorno all’aeroporto e il tutto è stato ancora una volta rinviato.

Perché? Il governo Serraj ha il sostegno della città di Misurata ma non è affatto popolare dalle parti di Tripoli. Il capo dell’«entità governativa della Tripolitania» vicina ai Fratelli musulmani, Khalifa Ghweil, ancora oggi considera quello di Serraj un esecutivo «imposto dall’esterno» che i «libici non accetteranno mai». In una occasione si è lasciato sfuggire che qualora Serraj si presentasse a Tripoli, lui lo farebbe arrestare. Il suo ministro degli Esteri, Aly Abouzzalok, lo definisce un gabinetto «messo insieme dall’Onu alla bell’e meglio» a seguito di un «dialogo artificiale» e, per queste ragioni, «privo di legittimità». Lo speaker del Parlamento tripolino, Abu Sahmain, mette addirittura in forse l’incolumità del capo del governo di unità nazionale.

Sull’altro versante, quello di Tobruk, grande incognita per il costituendo gabinetto Serraj è il generale Khalifa Haftar, già al fianco di Gheddafi e adesso — sostenuto dall’Egitto — uomo forte di quella fazione. L’ufficiale, appoggiato anche da commandos francesi, guida l’offensiva per la «liberazione» di Bengasi ed è all’attacco contro diversi gruppi islamisti: i qaedisti di Ansar Al Sharia (che nel 2012 uccisero l’ambasciatore americano Chris Stevens) e la Brigata Martiri del 17 febbraio vicina ai Fratelli musulmani. Ma Haftar, inviso per le ragioni appena dette ai Fratelli musulmani, è costretto a restar fuori dal gabinetto di unità nazionale: una delegazione italiana ha dovuto recarsi a Marj per rassicurarlo e convincerlo a non fare bizze. Contemporaneamente Haftar è oggetto di una presa di distanze da parte del presidente del Parlamento di Tobruk, Aqila Saleh, che annuncia il varo di una commissione per vagliare le accuse contro di lui lanciate in tv dal colonnello Nohamed Hejazi fino a poco tempo prima suo fedelissimo.

Il governo filoegiziano di Tobruk è più disponibile nei confronti di Serraj anche se milizie wahabite si mostrano ostili. Ma, a parte la «grana Haftar», servirebbe il voto favorevole di due terzi dei parlamentari qui insediati (vale a dire 124 su 188) e ad oggi si sono pronunciati per il sì solo in 101. Secondo l’Onu la mancanza degli altri 23 voti sarebbe riconducibile non già a resistenze dei parlamentari di Tobruk, bensì a «pressioni violente e indebite». Destinate a venir meno non appena sarà chiaro che Serraj è in grado di esercitare la sua autorità sulle decine di miliardi di depositi bancari, sui fondi sovrani nonché sui giacimenti petroliferi. Denaro da cui trarre le paghe per dipendenti pubblici e soldati. Tanto che si è cominciato ad auspicare, anche da parte italiana, la nascita di un esecutivo guidato da Serraj «il più possibile riconosciuto». Come dire: anche se a votarlo non ci sono proprio tutti, va bene lo stesso. Pericolosa illusione. Il capo del governo di Tobruk, Abdullah al Thani, ha esortato la comunità internazionale alla prudenza, a non imporre il nuovo esecutivo prima che abbia ottenuto la fiducia parlamentare («sarebbe un atto senza precedenti») e a non procedere per forzature o accelerazioni.

Per il momento perciò sarebbe opportuno soprassedere e non inviare contingenti in Libia. Anche a governo realmente insediato. Sarebbe più saggio fermarci alla politica già in atto, quella di mandare un numero limitato di soldati altamente specializzati a presidiare le postazioni più delicate e, in modi poco visibili, a dare supporto ai primi passi governativi di Serraj. Il quale dovrà essere capace di conquistare il consenso e la legittimazione che ad ogni evidenza al momento gli mancano. Solo quando, tra mesi e mesi, avrà manifestamente ottenuto consenso e legittimazione, potrà — se lo riterrà opportuno — chiedere un sostegno militare internazionale per combattere l’Isis. Se lo facesse a tambur battente, l’impresa sarebbe votata all’esito di quella di Cao Ky e di tutti, ma proprio tutti, i «fantocci» che in tremila anni di storia lo hanno preceduto. E lo stesso discorso, ovviamente, varrebbe per noi.