TRIPOLI. «C’è una sola richiesta che tutti facciamo all’Italia: non pensate alle armi, ai soldati e ai cacciabombardieri. Riaprite l’Istituto di cultura, riaprite il consolato e le scuole di italiano, tornate ad aiutare i giovani, le donne, la società civile. Fate programmi civili per aiutare i libici a fare la pace, fate programmi per riabilitare i nostri ospedali, le scuole, i servizi. Fate questo e sconfiggeremo i terroristi meglio di quanto pensate». Marzia, Alia e Nour sono le professoresse della scuola di italiano “più pazza del mondo”. Insegnavano a Tripoli all’Istituto di cultura, che ha chiuso insieme all’ambasciata e al consolato. Ma loro hanno riaperto di loro iniziativa una piccola scuola privata, che si appoggia a un asilo libico nelle ore di chiusura, ogni pomeriggio. Marzia Sapienza è di Sapri, ha sposato un libico. Alia Tlassi e Nour sono mamma e figlia: la madre di Alia era toscana, il papà libico. «Siamo la testimonianza dell’Italia che i libici amano», dice Marzia, una donna piccola, dura ma gentile. «Sono stati cinque anni pesanti quelli trascorsi dalla rivoluzione a oggi, io per esempio avevo partorito in Italia nell’estate del 2014, sono rientrata e due settimane dopo è scoppiata la guerra civile, proprio davanti casa mia c’è l’aeroporto di Mitiga, uno dei punti in cui lo scontro è stato più pesante. Cinque settimane chiusi in casa, sotto le bombe. Non abbiamo mollato e adesso siamo qui». La scuola è una piccola oasi di felicità e anche una distrazione in una città che ha una resilienza incredibile, ma davvero è vicina al collasso psicologico. Dice Alia che «nei momenti di tregua più prolungata riusciamo ad avere fino a 60-70 studenti. Tutti attratti dalla voglia di Italia, dalla passione per l’italiano, dal desiderio di aprirsi al mondo e alla cultura. Certo, lo faccio per me, per non star ferma per indirizzare la mia energia. Ma posso dire che lo faccio soprattutto per questi giovani, per i miei paesi che sono l’Italia e la Libia? A Natale abbiamo giocato alla tombola, in Libia naturalmente non sanno cos’è la tombola, cosa vuol dire “mescolare bene i numeri” prima di estrarli! Abbiamo cantato l’inno nazionale, abbiamo preparato il torrone e la pizza». Nour, la figlia di Alia, è un medico, la mattina lavora in ospedale e il pomeriggio insegna italiano: «Le ragazze come al solito sono le più brave», dice mentre le sue studentesse applaudono. Una di loro, Sondos, studia ingegneria meccanica e poi di pomeriggio viene qui a imparare l’italiano. «Ho visitato con la mia famiglia il Ferrari World ad Abu Dhabi, chissà che non ce la faccia a lavorare a Maranello in fabbrica: una donna, libica, ingegnere, alla Ferrari…». Un’altra, Ranya, è già architetto, ha finito di studiare italiano, e lavora in un’impresa di costruzioni: «È una soddisfazione sapere che in un paese con tutte queste difficoltà c’è gente, ci sono giovani e meno giovani che guardano all’italiano come una lingua che è uno strumento di cultura, non solo l’inglese che serve per lavorare, che magari è più utile, ma meno sofisticato». Un buon ricordo l’ha lasciato l’ultimo direttore dell’Istituto di cultura, Pietro Rosselli. Un ottimo ricordo come al solito una donna, l’ultima console che prima dell’evacuazione è rimasta per giorni in ufficio fino alle 2 di notte per chiudere tutte le pratiche per gli ultimi visti, per le ultime pratiche. «L’amore dei libici per l’Italia è incredibile, noi dobbiamo amare la Libia, capirla e aiutare a ricostruirla per bene». La scuola delle donne è una grande scuola.
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