Tombe e cappelle vandalizzate dalle scorribande negli anni post rivoluzione contrastano con  i prati ben curati del camposanto britannico. «Gli inglesi pagano»

Ai Bastianini, hanno staccato la parola «Famiglia» e spaccato le lapidi. Ai Rizzi, sfondato il pavimento e tolto le croci. Ai Bettucchi, divelto l’altare. Dei Bissi è rimasta solo un’ombra del nome. Sui Lovato, Ernesto e Teresa e Maria Giovanna, vagano i cani randagi a spolparsi qualche osso che sembra d’animale. C’è una cappella intitolata agli «…os…un» e nessuno sa più chi siano. «I salafiti sono venuti due volte — racconta il custode libico, un cartoccio di patatine fritte in mano — , l’ultima a novembre, e hanno distrutto il poco che restava da distruggere». Requiescant In Pace, è l’iscrizione all’ingresso del vecchio Cimitero cristiano degl’Italiani di Tripoli, a due chilometri dal centro, ma qui gl’italiani non riposano più: li hanno dovuti spostare in fondo al vialetto, in un sacrario blindato e chiuso con cancellate e catene, sperando che almeno lì nessuno scavalchi e completi l’opera. E i portalumi di bronzo liberty, le foto seppiate, gli angeli anni Venti che spezzano le catene, persino i forni crematori sono stati presi a picconate. La notizia si sapeva, ma vedere è un’altra cosa: tutto è sparso in giro, buttato nelle sterpaglie seccate dal vento caldo del deserto. Anche il vecchio custode italiano, Bruno, se n’è andato da un pezzo: «Non so chi fosse — dice il suo successore —, però s’è risparmiato questo spettacolo». 

Il confronto

Italiani brada gente. Dodici scalini dividono due cimiteri e due modi di difendere la memoria. Perché basta camminare appena oltre le nostre tombe devastate, salire gradini che portano all’ala ovest del cimitero Hammangi e di colpo s’entra in un altro aldilà. Non c’è neanche una ringhiera a separare: di qui lo squallore del camposanto italiano profanato, appena di là il prato verde all’inglese e annaffiato e ben rasato del Tripoli War Cemetery. Il sepolcro candido del Capitano T. W. Dirkin dei Royal Engineers, morto il 17 ottobre 1943 all’età di 24 anni, ha i fiori freschi e così gli altri, più d’un migliaio: britannici, indiani, nepalesi, greci, tutti i soldati di Sua Maestà che combatterono i nazifascisti e che Sua Maetà non ha dimenticato. «L’ambasciata inglese a Tripoli è chiusa da tempo, come quella italiana, ma la differenza è che loro pagano…», dice il custode: un paio di guardiani armati che tengano alla larga i fondamentalisti islamici, qualche giardiniere che pettini l’erba e curi le aiuole di rose e ranuncoli. Nessuno si sogna di toccare le croci, nel Cimitero degl’Inglesi. E Rest In Peace è una preghiera che anche i salafiti sono costretti a rispettare. 

Peggio che ai tempi degli Ottomani

Morire in Libia è una dannazione della memoria. E nel potere ancora più svuotato dall’arrivo di Fayez Serraj, premier sbarcato a formare il governo d’uno Stato che non esiste più, in quest’anarchia è fin più facile uccidere i simboli che le persone. Il cimitero cristiano di Tripoli esiste dal Cinquecento, gentile concessione del Pascià: nei secoli le profanazioni furono numerose e nel 1922 un ossario degli espatriati — ottomila in tutta la Libia — venne spostato nella zona di Hammangi. Dicono i tripolini che, nemmeno ai tempi degli Ottomani si sono mai viste tombe cristiane ridotte come queste. Accanto alle salme italiane, salvate nel sacrario chiuso col catenaccio, ce ne sono d’ancora più abbandonate: quelle dei migranti annegati mentre cercavano di raggiungere l’Italia. Non stanno nell’oasi verde degl’inglesi, naturalmente: hanno trovato spazio solo nelle frasche morte dei Bastianini e dei Rizzi. Un Naja Wisi Najato del Burkina Faso, ripescato in mare il 4 maggio 2015. Un George Jurio del Ghana trovato sulla spiaggia di Tripoli il 25 aprile, senza l’anno. Molti «unknown», sconosciuti, scritti a pennarello. Croci di legno, quasi nascoste dalla rovina. I fanatici non le hanno viste. O forse non vale neanche la pena di spaccarle.