Prigioniero delle milizie di Zintan, il figlio del Colonnello si è comprato la «protezione». Vive in una casa (e non in cella) con la nuova moglie e la figlia. Ma sogna il passato

ZINTAN (Libia) – «L’altro giorno chiacchieravo con Saif…». Saif chi? Il figlio di Gheddafi? «Sì, lui». Ma non è in prigione? Seduto nel cortiletto fra concessionarie Toyota e venditori di finestre anodizzate, all’angolo del semaforo dove i nigeriani aspettano i furgoni dei caporali, dove il figlio del dittatore fu catturato e mai più liberato, l’interlocutore sorride: «Essere prigionieri non significa non avere una vita — sorseggia il cappuccino Massoud Rojban, colonnello delle milizie di Zintan —. Saif è un uomo molto rispettato, qui, lo trattiamo secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma vuole sapere che cosa ci dicevamo?». Certo… «Pensavo all’arrivo di Serraj a Tripoli, questo primo ministro mandato dalla comunità internazionale, e scherzando gli ho chiesto: Saif, una volta eri tu il premier designato da tuo padre, non vorresti comandare ancora in Libia? Ha preso la bottiglietta sul tavolo, l’ha svuotata per terra e mi ha guardato: credi che l’acqua possa tornarci dentro, una volta che l’hai buttata via?».

La prima cosa che una nuova Libia deve fare, se mai nascerà, è affrontare i suoi fantasmi. A Zintan, ce n’è almeno due: Saif e l’Isis. Il primo è da cinque anni il bottino di guerra, o l’investimento, di queste milizie: non sta in una cella, anzi «se ne va in giro tranquillamente, ha una comoda casa, una nuova moglie e una bambina di tre anni». Per incontrarlo serve il consenso impossibile di tutti i capimilizie, dagli zintaniani ai berberi, e se uno dice sì è l’altro a dire no: accontentatevi dei pettegolezzi e di sapere che «lo trattiamo bene». Fra qualche mese Saif, secondogenito che papà chiamò La Spada dell’Islam, compie 44 anni. Ha sulle spalle una condanna a morte di Tripoli e un mandato di cattura internazionale. Ogni tanto l’ingegnere «è depresso», se ripensa alla dolcevita che fece: la London School of Economics, i ricevimenti a Buckingham Palace, i compleanni con Blair e Alberto di Monaco e i Rothschild, i weekend milanesi con le brasiliane nelle suite del Principe di Savoia…

Ma a Zintan, se non altro, si paga protezione e sopravvivenza. Milioni l’anno. Dipinge, guarda la tv, parla di politica. Fa anche un po’ d’affari. E da vicino osserva l’altro fantasma che agita questa parte di Libia: Fethalah Dahki, l’uomo che comanda lo Stato islamico a Ben Walid. «Lui lo conosce bene, era un amico di suo padre e oggi vive in una villa che fu dei Gheddafi». I libici dicono Green Daesh, Isis Verde, per distinguerlo da quello nero del Califfo e alludere ai nostalgici della verde Jamahiriya gheddafiana che lo guidano: «I capi dello Stato islamico li conosciamo bene, molti sono ex ufficiali del regime — è sicuro il capitano Ahmed Yakhlef, 52 anni, capo dell’intelligence di Zintan —. Un altro di loro si chiama Salem Waher ed è un ex colonnello che accompagnava in giro i figli di Gheddafi. Sono i destini diversi della Rivoluzione. In fondo, tutti noi siamo ex: Waher, io, il generale Haftar che oggi guida l’esercito da Tobruk, abbiamo fatto l’accademia militare e combattuto insieme in Ciad. Poi loro hanno mollato Gheddafi e sono stati in America. Waher ha imparato le tecniche di combattimento. Quand’è tornato, ce lo siamo trovati dall’altra parte della barricata».

O vittoria o morte, scrivono con qualche ricordo coloniale sui muri di Zintan. La vittoria è lontana, perché qui le milizie stanno con Haftar e Haftar è contro Serraj. La morte, più probabile: bloccate sotto Sabratha, le brigate del Califfo sono comparse fra le montagne del Nefusa un paio di volte negli ultimi tre mesi. Cercavano le armi nascoste nelle grotte. L’ovest libico è il fronte dov’è più facile avere rinforzi di foreign fighter tunisini, ma non è chiaro che ci faccia l’Isis da queste parti. Né quanti uomini abbia. Però l’appeal è forte: cittadine come Al Asaba sono passate dal contrabbando al più redditizio jihadismo, stipendio fisso e un po’ d’eroismo. «Una mattina alle 5 c’è stato uno scontro duro con l’Isis — dice il colonnello Rojban —. Li avevamo a portata di voce. Avevano preso una torretta. Ci hanno gridato: “Combattete quanto volete, tanto Dio è con noi!”». Il colonnello non è tipo da spaventarsi: «Questa gente non c’entra nulla con la Libia. Abbiamo buttato giù Gheddafi: da quella torretta, butteremo giù anche loro».