Ci sono due soli punti fermi, nell’ennesima, convulsa accelerazione che si registra intorno alla partita libica. Il primo è la richiesta, da parte delle Nazioni Unite, di un contingente internazionale a protezione dell’incolumità dei suoi inviati e della sua operatività a Tripoli: uomini scelti da un numero limitato di Paesi, con l’Italia probabilmente chiamata a fornire il contributo più significativo, dando così una prima sostanza alle sue ambizioni di leadership. Ed è questa la tessera più immediata del grande mosaico che con fatica va componendosi. L’altro punto, più significativo ancorché circondato di levantina ambiguità, è la richiesta del governo Serraj all’Onu, ai Paesi europei e a quelli africani confinanti, «di aiuti per proteggere le risorse petrolifere della Libia». Affidata a un comunicato del Consiglio presidenziale, ancora ieri sera non sembrava essere stata formalizzata in alcun documento ufficiale. Di più, sull’annuncio sembrava pesare anche una contingenza interna: esso è arrivato infatti proprio all’indomani della notizia che il famigerato generale Haftar, l’uomo di Al Sisi che controlla le milizie di Tobruk, ha appena ricevuto dai suoi sponsor un’importante fornitura di armi, munizioni e veicoli, che potrebbe servirgli non solo per un’offensiva contro le postazioni di Daesh a Sirte e Derna, ma anche per riprendere il controllo delle installazioni petrolifere dell’area, oggi difese dalle Guardie di Ibrahim Jadran, che hanno deciso di appoggiare Serraj.

Ma anche facendo la tara di una mossa mirata a influenzare gli equilibri interni, la novità rimane: per la prima volta dall’inizio del travagliato processo per la stabilizzazione del Paese, un esecutivo pur fragile chiede l’appoggio della comunità internazionale su una questione esistenziale. Detto altrimenti, dà pienezza alla madre di tutte le condizioni poste per una eventuale azione esterna: una domanda dall’interno.

Se questi sono i soli dati certi, il rovello è inevitabile: l’Italia che fa? Offrirà il suo contributo alla protezione di Martin Kobler e del suo staff? Sarà conseguente con le cose ripetute da mesi dai nostri ministri, secondo i quali solo al termine della successione «governo di unità nazionale-insediamento a Tripoli-richiesta alla comunità internazionale» ci sarebbero state le condizioni per imbastire una eventuale missione di stabilizzazione?

Ha fatto bene nei mesi scorsi il presidente del Consiglio a mostrare cautela, ogni qual volta, a torto o a ragione, si sia registrata una fuga in avanti. E ha fatto bene a resistere, non ultimo al vertice di Venezia con il presidente francese Francois Hollande, le pulsioni guerresche di Parigi (o Londra) che spingevano a rompere gli indugi e ad agire in un teatro che presenta rischi enormi e letali. Oggi, pur con tutte le ambiguità del caso, siamo di fronte a un salto di qualità. Matteo Renzi ostenta ancora prudenza, anzi fa smentire con forza ogni ipotesi di intervento e ogni cifra in circolazione. Ma i piani contingenti esistono da mesi, è il lavoro di ogni apparato militare serio e preparato. Siano quelli per la protezione dei siti diplomatici o governativi, o quelli per l’addestramento e la formazione delle forze armate e di polizia della nuova Libia. Certo è irrinunciabile che un numero congruo di Paesi risponda alla domanda di protezione dell’Onu. Certo occorrerà verificare fino in fondo che la richiesta di Serraj sia veramente tale e non sia soltanto un ballon d’essai, volto a mettere un freno al bulimico Haftar. Certo sarà indispensabile rispettare tutti i passaggi necessari, quello parlamentare in primo luogo. Ma non c’è dubbio che una decisione sulla Libia non potrà essere procrastinata ancora per molto. Solo una piena assunzione di responsabilità può infatti dar sostanza alla rivendicazione di una leadership, che la Storia, la geografia e il nostro ruolo nel Mediterraneo legittimano.