Convocato da Stati Uniti e Italia, il vertice di Vienna – al quale farà seguito martedì una riunione internazionale sulla Siria – avrebbe dovuto decidere due cose: 1) come ristabilire l’unità del Paese 2) la strategia della guerra all’Isis. Non ha risolto ovviamente nessuna delle due questioni ma dal ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni un messaggio chiaro è arrivato: non ci saranno “boots on the ground”, nessun intervento militare di terra. Come del resto era previsto e annunciato alla vigilia del vertice ed è stato ribadito anche a Vienna dal primo ministro libico Fayez Serraj, il quale ha dichiarato di non volere un intervento straniero ma assistenza per l’addestramento delle truppe e la rimozione dell’embargo sulle armi. Ottenendo su questo un apertura del segretario di Stato Usa, che ha sottolineato la necessità di fornire armi al nuovo governo libico.
L’appello del premier Sarraj
Il premier libico designato, Fayez al-Sarraj Il premier Sarraj ha lanciato una appello che in considerazione della sua situazione assai precaria è apparso quasi accorato. «Non chiediamo un intervento straniero in Libia, ma assistenza con addestramento e la rimozione delle sanzioni sulle forniture milita delle armi al nostro governo: la comunità internazionale ha responsabilità verso la Libia, e quando si tratta di sconfiggere lo Stato islamico ricordo ai nostri amici che questo sarà raggiunto dagli sforzi libici e senza intervento militare straniero». Per verità ha anche scoccato una frecciata: «Il nostro nemico peggiore non è l’Isis ma le divisioni interne. I terroristi saranno sconfitti dal nostro esercito unito sotto il comando civile, non dalle milizie rivali che rivendicano un ruolo politico». Il premier libico ha quindi fatto un chiaro riferimento al sostegno politico e militare che arriva ad alcuni elementi della Cirenaica, innanzitutto il generale Khalifa Haftar e al presidente del parlamento di Tobruk Agila Saleh che stanno boicottando il governo di unità nazionale di Tripoli sostenuto dal piano dell’Onu.
Un puzzle geopolitico in frantumi
In realtà, a cento anni dagli accordi di Sykes-Picot per la spartizione coloniale anglo-francese dell’impero ottomano, non c’è nessuna idea condivisa nella comunità internazionale per rimettere ordine nei vasi di Pandora scoperchiati in questi decenni tra il Medio e il Nordafrica, con stati falliti o disgregati, dove milioni di persone hanno dovuto cambiare Paese e indirizzo generando una massa di profughi che non si vedeva dalla seconda guerra mondiale.
Inutile nasconderselo: di destabilizzazione alle porte e dentro casa ne avremo per molti anni. E anche la soluzione di un intervento militare a terra, che in Libia è ancora lontana, non offre solide prospettive perché pure qui è in corso una guerra dove le potenze internazionali, al di là delle dichiarazioni di facciata, sono schierate con le varie fazioni su fronti opposti: chi sono i nostri alleati e i nostri nemici? La risposta è ambigua. Per questo intervenire è difficile. Dopo aver riconosciuto il Parlamento di Tobruk come l’unico rappresentante del popolo libico nell’agosto 2014, l’Occidente ha puntato su Tripoli e vuole adesso applicare l’accordo marocchino di Skhirat del 17 dicembre 2015, ribadito in gennaio anche Roma, che prevede un governo di unità nazionale nella capitale che dovrebbe restituire coesione al Paese e condurre la guerra contro lo Stato Islamico a Sirte. Molti temono che questi accordi approfondiranno ulteriormente le divisioni tra la Cirenaica e la Tripolitania.
A soffiare sul fuoco sono i cosiddetti “pompieri incendiari”. Il generale Haftar, che impedisce al Parlamento di Tobruk di votare l’esecutivo di Tripoli, è stato sostenuto finora dall’Egitto, dalla Francia e dagli Emirati. Come del resto le altre fazioni, a Tripoli e Musurata, hanno i loro sponsor internazionali. La verità che anche la Libia, come la Siria e l’Iraq, è un’altra guerra procura.
Il nodo Cirenaica
I problemi sono molteplici ma volendo semplificare un quadro complesso e frammentato, con centinaia di fazioni, milizie, clan e tribù, si può affermare che la questione al momento ha un nome è un cognome, il generale Khalifa Haftar, e un luogo, la Cirenaica.La Cirenaica, che custodisce oltre il 70% delle riserve petrolifere della Libia, è sempre stata al centro degli avvenimenti politici e militari decisivi nella storia del paese. E’ in questa regione che dilagò la resistenza contro la potenza occupante italiana guidata da Omar el Mukhtar sotto l’influenza della confraternita della Senussia, cui apparteneva anche re Idris, il quale fu quasi costretto dagli inglesi a diventare il monarca di tutta la Libia: «A Tripoli – disse allora – non conosco nessuno, potrei fare solo il re della Cirenaica». E fu da Bengasi che Idris fece il suo discorso di insediamento. È sempre in Cirenaica che il Colonnello Muammar Gheddafi e i suoi compagni proclamarono, con un colpo di stato senza sangue, la rivoluzione il 1° settembre 1969, ed qui che nel 2011 è esploso il processo insurrezionale, appoggiato dalla Francia di Sarkozy, che ha messo fine al regime dopo otto mesi di guerra civile.
La storia sembra ripetersi oggi. È a Bengasi e Tobruk che c’è la maggiore opposizione al governo di Tripoli e la Cirenaica potrebbe nuovamente sconvolgere i piani delle Nazioni Unite e degli Stati occidentali che prevedono il rafforzamento a Tripoli di un governo di unità nazionale. La liberazione di Sirte dal Califfato, trascurata da più di un anno e che interessa non soltanto la stabilità della Libia ma anche quella della Tunisia e dell’area del Sahel, è diventata quindi una partita essenziale per i due blocchi rivali che mirano, attraverso una vittoria militare, ad aumentare le loro probabilità di prevalere politicamente sull’avversario. Un confronto diretto tra le due fazioni, oltre a significare la fine del processo sponsorizzato dalle Nazioni Unite, comporterebbe anche un grave rischio per il futuro del Paese.
E l’Italia? Gli interessi italiani sono concentrati in Tripolitania ma la partita per Roma è vasta e comprende, oltre alle questioni energetiche ed economiche dell’Eni e dei terminali del gas, il problema dell’afflusso dei profughi e la stabilità dell’intera Sponda Sud. Ma c’è di più. La partita libica e la partecipazione militare alla missione in Iraq anti-Isis sono due carte, accompagnate dal vertice africano di Roma di mercoledì, che l’Italia si gioca nella campagna di fine giugno all’Onu per l’assegnazione di un seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza. È una sorta di campionato mondiale della diplomazia che determinerà lo status del Paese nel Mediterraneo, in Medio Oriente e in Europa.