Il reportage dalla città libica tra le truppe che combattono l‘Isis. «Colpo di grazia a chi viene catturato, qui non facciamo prigionieri. Da Roma molte promesse e poco aiuto, non ci chieda ora di fermare i migranti»

Dal nostro inviato
SIRTE – Alle otto di sera in punto, quasi all’improvviso, tutto tace. Non più le raffiche sparse di mitragliatrice, non più i rombi cupi delle cannonate sparate tra lunghi intervalli dai vetusti tank sovietici posizionati sulle colline di sabbia e neppure i rumori continui dei pick up, stridenti e acuti, con le marce basse tirate sino al fuori giri. «Hiftaar, Hiftaar», è l’unico suono udibile adesso sui due fronti.

E così, alla luce dolce e rosata del tramonto, repentino come in ogni stagione del Medio Oriente, gli uomini dalle divise raffazzonate dei due eserciti, che di regolare hanno solo l’aspirazione ad esserlo e che soltanto sino ad un minuto fa stavano sparandosi gli uni contro gli altri, corrono ad accovacciarsi tra le macerie, sulle stuoie improvvisate stese al riparo dei muri sbrecciati, nei cortili ingombri di mobilia spezzata, tra i palazzi abbandonati, le moschee vuote, lo sporco e le immondizie, per consumare la cena che da sempre rompe il digiuno quotidiano del Ramadan. Cambia poco che siano giovani volontari di Misurata o veterani della jihad arrivati dalla Tunisia, l’Algeria o dalle «Montagne Verdi» della Cirenaica. Tutti nei bivacchi improvvisati iniziano coi datteri, il dolce tradizionale che garantisce subito energie, poi yogurt e riso con l’uva passa. Le stesse preghiere, gli stessi gesti di rito, lo stesso Dio. Simili, eppure diversissimi. Tutti musulmani, ma nemici giurati.

In quest’epoca di guerre di religione imperanti verrebbe da pensare che tutto sommato nella Libia omogeneamente sunnita basterebbe poco per metterli d’accordo. Eppure, è sufficiente la risposta fornita distrattamente da un paio di comandanti di Misurata incontrati in tarda mattinata alle porte di Sirte vicino alle autobotti del carburante per ritrovare la durezza tragica dello scontro. «Dove possiamo vedere i prigionieri?», chiediamo. «Prigionieri? Qui nessuno fa prigionieri. Loro, i nostri li uccidono. Prima, quando avevano tempo e si sentivano vittoriosi, li torturavano in cella, per in seguito decapitarli alla rotonda di Zafarana. Andate a vederla poi, l’abbiamo riconquistata cinque giorni fa. Adesso invece si sentono braccati e li finiscono subito sul posto». «E voi, cosa fate dei loro?», incalziamo. «Difficile trovarli vivi. Hanno cinture di esplosivo o bombe a mano legate alla vita. Quando credono di essere perduti si fanno saltare in aria. E, se comunque li troviamo ancora vivi, siamo noi ben contenti di eliminarli. Un colpo alla testa e via. Tanti terroristi e criminali crudeli in meno, che oltretutto con la loro interpretazione estremista del Corano non sono altro che pericolosi eretici destinati a gettare fango sull’immagine dell’Islam nel mondo».

Guerra crudele, ma tutto sommato poco guerreggiata. Un classico conflitto a bassa intensità, fatto di momenti di fuoco relativamente fitto intervallati da lunghe parentesi di calma, persino tedio. Raccontare l’assedio delle milizie libiche, largamente figlie della rivoluzione del 2011, contro i jihadisti di Isis circondati a Sirte e affiancati da una folta presenza di ex fedelissimi di Gheddafi riporta automaticamente alle infinite corse nel deserto e lungo il vecchio tracciato della Balbia della rivoluzione «assistita» dalla Nato cinque anni fa. Allora nella città costiera posta a metà strada tra Tripoli e Bengasi stava asserragliato lo stesso Gheddafi con un manipolo di irriducibili. Sirte segnò la sua tragica fine, linciato a morte il 22 ottobre 2011. Oggi gli assedianti sono simili, con in testa quelle stesse milizie di Misurata che in parte (ma non tutte) hanno deciso di sostenere il nuovo Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al Sarraj a Tripoli. Pure, la situazione è diversa. «Isis non combatte come i soldati di Gheddafi. Cinque anni fa la nostra preoccupazione maggiore erano i cecchini. Appostati ai piani più alti erano una minaccia continua con i loro fucili ad alta precisione di fabbricazione russa. Adesso i cecchini ci sono ancora. Ma a loro si aggiungono i kamikaze individuali, le auto-bomba, tutti quei fanatici arrivati dall’estero, abituati a combattere in Siria, Iraq e Afghanistan, pronti a morire, anzi ben contenti di farlo. I combattenti di Isis sono molto più fanatici e infidi. Si mischiano ai pochi civili rimasti e poi ci attaccano alle spalle», racconta Salim Badi, comandante 55enne della Katiba al-Mughirat, una tra le più forti di Misurata.

Cerchiamo allora di capire come si sta svolgendo la battaglia, tenendo a mente i parametri di cinque anni fa. Oggi come allora dominano due costanti: la difficoltà nel districarsi nella propaganda, oltre alle enormi differenze tra lo scontro urbano e quello in aperto deserto. Il primo aspetto va sottolineato. Alle grida di vittoria lanciate specialmente dai responsabili di Misurata una settimana fa va aggiunto che i combattimenti potrebbero durare ancora a lungo. «Sirte potrebbe cadere solo alla fine di Ramadan, la seconda metà di luglio», ci ha detto giovedì sera Anwar Sawan, uno dei massimi capi del consiglio militare di Misurata. Il quale non ha tra l’altro lesinato critiche all’Italia. «Roma ci promette aiuti a parole. Ma in pratica fa molto poco. Persino il programma di assistenza ai nostri feriti va a rilento. Ne avevamo inviati a Roma venti. Sette sono stati rifiutati dai vostri ospedali. Il vostro premier Renzi non si aspetti la nostra collaborazione per bloccare i migranti. Poche settimane fa ne abbiamo espulsi oltre 600 verso i nostri confini meridionali. Altri 62 sono in carcere. Ma nel futuro non saremo più pronti a rimandarli alle loro case in Africa», ha detto.

Nessuno nasconde l’importanza per contro dell’aiuto militare anglo-americano. «La loro intelligence ci permette di individuare gli obbiettivi sul campo», aggiunge Sawan. A Misurata si troverebbero una quarantina di consiglieri militari che grazie a satelliti e droni guidano i miliziani nelle loro operazioni. «Però non ci sono unità terrestri anglo-americane. Tutte le truppe combattenti sono nostre», specifica. E tuttavia l’attacco va a rilento. Sulle mappe di Sirte i comandanti mostrano la ventina di chilometri quadrati di area urbana ancora in mano ad Isis. Comprendono l’intero centro città, sino ai palazzoni dello Ougadougou, il gigantesco centro congressi voluto da Gheddafi per cementarvi l’alleanza libico-africana. Anche cinque anni fa risultò difficile da debellare, tanto che venne ripetutamente bombardato dai caccia francesi e britannici. Pochi giorni fa girava la notizia, anche sulle agenzie stampa internazionali, che Isis l’avesse abbandonato. Ma non è affatto vero. L’altra mattina siamo rimasti a lungo ad osservare sporadici scambi tra cecchini. La brigata dedicata al «martire» Abdel Hamid, tutta di Misurata, è posizionata tra abitazioni basse e cumuli di ghiaia a circa 800 metri di distanza. Vicino a loro si trova una brigata di Slitan, tutti giovani tra i 18 e 30 anni. Molti alla loro prima esperienza di guerra. «Vinceremo se Allah lo vuole. Ma prima dobbiamo eliminare tutti quelli di Isis, non ci sono alternative», sostengono.

Ma quanti sono quelli di Isis? In situazioni come queste i numeri sono il dato più semplice da ottenere e però il più difficile da verificare. A seconda degli interlocutori abbiamo sentito parlare di 3.000 uomini, ma anche di meno di 200. Complesso individuare il numero dei civili, pare siano solo qualche migliaio, forse meno. Ma nessuno ne parla. «Lo dite voi giornalisti che quelli di Isis sono 6.000, no?», ha osservato ironico un comandante. Al piccolo ospedale da campo posto in una fattoria a un chilometro dalle prime linee il medico di guardia, Yossef Tawil, ortopedico 27enne, appare però molto scettico. «A giudicare dall’intensità dei combattimenti, direi che i jihadisti sono meno di 250. Sparano poco, risparmiano munizioni. Ho l’impressione che la maggioranza sia riuscita a disperdersi nel deserto prima che il cerchio del nostro assedio venisse chiuso», dice. I responsabili dell’intelligence di Misurata valutano che sino ad una settimana fa i militanti di Isis fossero «circa 600». Con quale criterio? «Il numero di capre uccise per il rancio quotidiano. Una media di 10 al giorno, che sfamano circa 60 uomini ognuna. Ce lo raccontava un nostro agente interno, che però poi è stato scoperto ed eliminato», specificano. Sempre all’ospedale affermano che gli assedianti nell’ultimo mese hanno perso circa 160 uomini, oltre a circa 200 feriti.

Sconosciuti però i dati relativi alle perdite di Isis. Per arrivare alla rotonda di Zafarana occorre risalire la strada principale battuta sui due lati dai cecchini. Qui gli spari sono più fitti. Nell’asfalto segni di proiettili ed esplosioni. Diverse auto colpite sono riverse nel fossato parallelo, attorno sono sparse riserve di munizioni, cibo, bottiglie dell’acqua, coperte e materassi. Il palco in ferro dove Isis decapitava e crocifiggeva le sue vittime è stato completamente divelto. Restano in piedi solo vecchi cartelloni pubblicitari crivellati di proiettili. Le abitazioni attorno paiano gravemente danneggiate. Qui i miliziani vietano qualsiasi fotografia. Più a destra l’ospedale Ibn Zina, che in un primo tempo veniva dato per liberato, appare invece ben controllato da Isis. Le brigate della rivoluzione hanno utilizzato giganteschi bulldozer per erigere cumuli di terra protettivi. Verso le cinque del pomeriggio i rombi si fanno più frequenti. Sono nervosi i miliziani. Lo stallo e la consapevolezza che l’assedio durerà ancora diverso tempo non contribuiscono ad alzare il morale.

E’ intanto giunto l’eco di un grave attentato al posto di blocco di Abu Grein, 120 chilometri più in dietro verso Misurata. Una dozzina di combattenti hanno perso la vita. Una notizia che conferma le previsioni più cupe. Isis in fuga si è disperso e raggruppato. Ha perso territorio, ma torna alla guerriglia. Le sue pattuglie suicide approfittano del rilassamento dei controlli per Ramadan e s’infiltrano nelle retrovie. La stessa Tripoli, 300 chilometri più a ovest è a rischio. Sabato scorso un altro attentato contro il precedente ospedale da campo, 50 chilometri a ovest di Sirte, aveva ucciso uno dei medici più amati dai soldati e causato sconcerto. Non ci sono leggi o convenzioni umanitarie in questa guerra senza prigionieri e anche i medici sono considerati un obbiettivo legittimo.