Le testimonianze mentre gli Usa hanno dato il via ai raid richiesti dal governo. «Noi libici amiamo l’Italia con tutto il cuore. Siamo due Paesi fratelli»

«Adesso sembrerà che tutto il merito della sconfitta di Isis a Sirte sia degli americani. Noi per oltre tre mesi ci siamo dissanguati per combattere i jihadisti. Bastava poco per batterli definitivamente, se ci avessero mandato munizioni e armi pesanti non sarebbe stato necessario altro. Ce l’avremmo fatta da soli. Ma, senza consultarci, Fayez Serraj ha chiesto l’aiuto armato di Washington. I raid aerei Usa sono un’offesa per tutti noi giovani delle milizie in prima linea». È il parere più critico dei raid americani che abbiamo raccolto ieri sera atterrando nella capitale libica. Arriva da Mohammad Amish, 26enne tripolino che dal 2011 milita nella Brigata dei Martiri, una delle tante che assieme a quelle di Misurata circonda Isis nella sua roccaforte a Sirte.

Al momento si è preso una decina di giorni per rivedere la famiglia. Tornerà in prima linea entro venerdì, garantisce. Ma non lesina un giudizio politico: «Serraj, così facendo, si è giocato la carta del sostegno del parlamento di Tobruk. Ora è chiaro che i francesi stanno con il generale Khalifa Haftar e invece gli americani con Serraj. È già successo nel passato: quando Bengasi e Tobruk ridono, Tripoli piange. Adesso avviene l’opposto: Tripoli esulta e gli altri sono scornati. Ancora una volta l’intervento della comunità internazionale, pur sbandierando la nostra unità nazionale, non fa che contribuire in effetti ad aggravare le nostre divisioni interne». Va però osservato che le sue critiche sono soltanto una faccia della medaglia. Tanti nella capitale libica si dicono infatti sinceramente felici per l’attacco americano contro Isis e ben contenti che l’Italia dia una mano.
Ai tavolini del centralissimo «Caffè Roma», nei pressi delle mura della cittadella medievale e i bei palazzi del periodo coloniale italiano, prevale decisamente il plauso per il premier e per l’aiuto militare di Washington. «Serraj ha fatto benissimo. E non importa che Haftar con i suoi amici francesi non siano contenti. Lui è un vecchio generale con manie da dittatore in pieno stile Gheddafi. Isis invece costituisce una minaccia per tutti. Un pericolo gravissimo che rischia di espandersi come la peste tra le rovine del nostro Paese e le divisioni interne. Va battuto subito e con ogni mezzo, lasciando da parte le sottigliezze della politica», esclama Omar Ali Ghrada, 57enne direttore della «Savana», una compagnia che fornisce servizi e supporto logistico alle grandi multinazionali del petrolio. «Isis attacca i pozzi, mette in ginocchio l’economia nazionale. Qui a Tripoli la gente si illude che sia una minaccia remota. Stanno sui bar del lungomare e non sanno nulla. Ma i jihadisti sono qui, nel deserto tutto attorno a noi», aggiunge. E non manca un commento sull’Italia: «Noi libici amiamo l’Italia con tutto il cuore. Amiamo la vostra lingua, la vostra cultura, il cibo, il carattere. Siamo due Paesi fratelli. Spero ardentemente nel ritorno al più presto degli italiani in Libia. Le ditte italiane tra l’altro hanno costruito il grande complesso di Ouagadougou nel cuore di Sirte dove sono trincerati quelli di Isis. Potrebbero fornire le mappe, aiutare a stanarli».

Dello stesso tono sono i discorsi di Abdelhakim Abida, 48enne responsabile della «Hana», compagnia libica che da un trentennio fornisce servizi di catering a 18 grandi campi petroliferi. Tra i suoi soci anche le maggiori ditte italiane, Eni e il terminale di Mellitah, la francese Total, la spagnola Repsol, le organizzazioni che gestiscono le piattaforme nel mare come quella di El Buri a 120 chilometri dalla costa. «Voi italiani non siete adatti per fare la guerra. Vi conosco bene. Ho lavorato con voi per un mucchio di anni. Ma siete fondamentali per ricostruire questo Paese. Ecco perché non potete tirarvi indietro se gli americani vi chiedono le vostre basi per i loro aerei. Dovete starci per non perdere il carro del dopo Isis», afferma secco.

Ad un tavolino poco distante due signore di mezz’età, una lavora come bibliotecaria l’altra è impiegata, si dicono però preoccupate per il persistere dello scontro frontale tra Tobruk e Tripoli: «Francesi e americani avrebbero dovuto coordinare la loro guerra contro Isis. Invece adesso Serraj e Haftar sono più che mai ai ferri corti. La vittoria contro Isis potrebbe costituire un’ottima occasione di rilancio per la costruzione della Libia unita. Ma la battaglia politica resta del tutto aperta».