OGNI VOLTA che i nostri massimi responsabili governativiparlano della Libia risulta evidente la difficoltà politica di prendere posizione e delineare opzioni e scenari. L’obiettivo, in termini di interessi nazionali, è del tutto evidente: impedire che a poca distanza dalle nostre coste diventi irreversibile una situazione di anarchia e endemica violenza (una Somalia mediterranea), e che questo “Stato fallito”sia la fonte di minacce terroristiche sul nostro territorio e non sia in grado di controllare, anzi possa fomentare, un flusso massiccio di migranti verso le nostre coste. Quello che invece non è affatto chiaro è come perseguire questo obiettivo. Ci sarebbe certamente piaciuto poter contribuire alla ricostruzione della Libia sul piano degli aiuti economici e delle attività umanitarie nel contesto delle attività di post-conflict peace building, la costruzione della pace dopo il conflitto.

IL CONFLITTO però non solo non è finito, ma si è ulteriormente complicato dato che vi si mescolano lo scontro fra milizie libiche e l’inquietante presenza di jihadisti internazionali, in primo luogo quelli appartenenti allo Stato Islamico. Tendiamo a lamentarci dell’esclusione da gruppi ristretti dove si decidono le principali questioni internazionali, e comprensibilmente si alzano oggi voci che affermano il diritto dell’Italia ad essere non solo consultata, ma coinvolta nel processo decisionale. Come dicono gli americani, “no taxation without rappresentatio” — se non sono rappresentato nonposso essere chiamato a contribuire. Il problema però è che questo principio è reversibile: non si può chiedere di essere rappresentati se non si è disposti a contribuire. Ma qual è il contributo che potrebbe essere chiesto — anzi, che probabilmente è stato già chiesto — all’Italia in questa fase? Come ha chiarito ieri in Parlamento la ministra della Difesa Pinotti, si tratta della concessione agli americani, in supporto all’operazione di bombardamento aereo contro le milizie dello StatoIslamico arroccate a Sirte, dell’utilizzo delle nostre basi (si pensa soprattutto a Sigonella) e del nostro spazio aereo. Un contributo limitato, quindi, e concesso soltanto a richiesta degli americani, che a loro volta hanno chiarito di avere deciso i bombardamenti su Sirte dietro richiesta del Gna — il Governo di Accordo Nazionale presieduto da Al Serraj. Le cose tuttavia risultano molto più complesse e problematiche. Certo, il bersaglio è l’Is, ma un intervento con operazioni aeree  incide, e in modo pesante, sulla ancora irrisolta contrapposizione fra forze che si contendono la guida dello Stato libico. Che sia vero lo dimostra la protesta del Parlamento di Tobruk (in concreto del Generale Haftar) per un intervento americano che, fatta eccezione per il fragile governo di Al Serraj, tutte le componenti politico- militari del grande caos libico denunciano come “imperialista”. Ancora una volta risulta quindi evidente che, se è vero che la forza militare è indispensabile — soprattutto nei confronti di una minaccia con cui non si negozia, quella dello Stato Islamico — è altrettanto vero che la forza militare non basta. Gli interrogativi, poi, non mancano. Quanto si pensa che potrà durare la campagna aerea americana? Siamo sicuri che l’azione aerea non finisca per richiedere una componente di terra, con uno slittamento della missione? E quale sarà la risposta dell’Is? Sappiamo, sulla base di quanto avviene sul fronte siro-iracheno, che nella misura in cui i seguaci del sedicente Califfo subiscono sconfitte sul terreno, sulla dimensione militare prende il sopravvento quella terroristica e già si registra un grosso attentato jihadista a Tobruk. Ma come combattere la minaccia terrorista, se non sul terreno? Anche se non sempre ufficialmente ammessa, vi è già la presenza in Libia di truppe speciali occidentali (americani, inglesi, francesi e anche italiani) in funzione di addestramento ai libici, ma con la possibilità di essere coinvolti in operazioni di combattimento. Ma quali libici pensiamo di appoggiare? È più facile essere contro l’Is che a favore di uno dei contendenti. Ufficialmente siamo tutti con il Governo di Accordo Nazionale, ma in assenza di un autentico accordo, Egitto, Francia, Russia e Cina sostengono in realtà Tobruk e il generale Haftar. È giusto appoggiare gli Stati Uniti nella loro azione anti-Is. Fra l’altro abbiamo sempre detto che per noi la priorità era la Libia, piuttosto che l’Afghanistan o l’Iraq, dove pure ci siamo impegnati. Ma ha lasciato sconcertati ascoltare il Generale Waldhauser quando il 22 giugno scorso si è presentato di fronte alla Commissione Difesa del Senato per la conferma della nomina a responsabile dell’Africa Command delle Forze Armate Usa. Quando il Presidente della Commissione McCain gli ha chiesto quale fosse la strategia di Washington nei confronti della situazione libica, il generale ha risposto con disarmante franchezza: «A questo punto non mi risulta esistere alcuna strategia globale». Non è la prima volta che gli americani intraprendono un’azione militare senza aver prima chiarito la strategia, e i risultati sono del tutto evidenti. Sarebbe disastroso se dovesse succedere nuovamente in Libia, dove nel 2011 — sarebbe bene ricordarlo — furono soprattutto gli europei, con una forte leadership francese, a commettere questo vero e proprio peccato capitale della politica di sicurezza e difesa. Nel momento in cui giustamente diamo la nostra disponibilità per contribuire a un’azione militare che è anche, se non soprattutto, nel nostro interesse, faremmo forse bene a sollevare alcuni pressanti quesiti.