SALVATE il soldato Serraj. L’intervento americano in Libia nasce da un’urgenza: impedire che il governo voluto dalle Nazioni Unite si dissolva. L’incapacità di piegare la resistenza dell’Is a Sirte sta rianimando le fazioni islamiche, che venerdì scorso hanno manifestato nella piazza principale di Tripoli contestando l’esecutivo troppo vicino agli occidentali.

ED ECCO che la decisione del presidente Obama apre una partita dagli esiti imprevedibili. La sconfitta del Daesh dopo oltre due mesi di assedio segnerebbe un punto a favore del fragile governo, ma rischierebbe di mostrarlo ancora piu’ dipendente dagli Usa e della Ue. Con il pericolo di spingere le formazioni politiche e militari fondamentaliste, alcune delle quali vicine ad Al Qaeda, a togliere il sostegno a Serraj. Non a caso, ieri Tripoli ha ribadito che l’intervento internazionale avverrà solo dal cielo e sotto comando libico, nonostante da mesi nuclei di incursori americani ed europei siano in azione nel Paese. Per la Casa Bianca si tratta di un rischio calcolato e inevitabile. La questione libica è sempre stata prioritaria per il Pentagono, che teme di vedere nascere una potente branca africana dello Stato islamico. Adesso gli attacchi aerei cercheranno di trasformare gli ultimi bastioni di Sirte in una trappola mortale per i combattenti del Daesh, come avvenne a Kobane. Ma soprattutto tenteranno di impedire la diaspora dei guerriglieri verso le oasi desertiche dove potrebbero riorganizzarsi per tornare a colpire grazie a nuove reclute nigeriane, sudanesi, egiziane, tunisine, marocchine e algerine. In questa operazione gli stormi statunitensi non saranno soli. Tutti i principali alleati che hanno contribuito alla nascita del governo Serraj verranno coinvolti: è molto probabile che nelle prossime ore anche caccia francesi e inglesi prenderanno di mira Sirte, mentre l’Italia sembra intenzionata a limitarsi a dare la disponibilità degli aeroporti. A complicare il quadro globale, però, ci sono i differenti obiettivi di politica interna seguiti da ognuno dei leader che scenderanno in campo. Barack Obama vuole mostrare come i democratici siano i paladini di un’America forte e così conquistare una fetta dell’elettorato repubblicano più conservatore e meno disposto ad assecondare le guasconate di Donald Trump. Il presidente Hollande deve ridare fiducia a una Francia piegata dalla catena di attentati jihadisti. La nuova premier britannica Theresa May invece ha l’occasione di convincere il mondo che la Brexit non cambierà la posizione interventista di Londra e il suo rapporto privilegiato con Washington. E Matteo Renzi? Nonostante l’aspirazione a un ruolo guida nella pacificazione della Libia, il nostro governo ha sempre mantenuto un profilo basso. Le iniziative, più diplomatiche e politiche che non militari, sono state poco propagandate: la stessa linea seguita nella missione irachena contro l’Is che – pur senza partecipare ai combattimenti – vede l’Italia al primo posto come numero di militari dopo gli Usa. Adesso pare scontata l’autorizzazione all’impiego di Aviano, Sigonella e forse Trapani per i raid alleati mentre di fatto le nostre navi, assieme alla flotta europea, già bloccano eventuali rifornimenti dal mare per il Daesh. Finora Palazzo Chigi invece ha negato la disponibilità a condurre attacchi aerei. Una scelta motivata implicitamente anche dal timore di ritorsioni terroristiche e che ha trovato il consenso della maggioranza degli italiani. Anche se molti analisti ritengono che il nostro paese sia ormai nel mirino del Califfato e che i tatticismi non possano dissuadere la follia jihadista, mentre la politica di “restare un passo indietro” renda sempre più bassa la nostra credibilità nelle capitali occidentali.