La Libia è a una svolta. I raid americani contro lo Stato Islamico a Sirte demarcano i campi e alterano i rapporti di forza della partita.

Si era finora giocata fra fazioni, forze e tribù locali. Gli appoggi esterni si tenevano dietro le quinte. Innescata dalla presenza di Isis, torna adesso la dimensione internazionale.Se combattiamo il Califfato in Siria e in Iraq, non possiamo ignorarlo sulla sponda Sud del Canale di Sicilia. Nel gioco l’Italia potrà difficilmente rimanere spettatore. Gli schieramenti erano già chiari. Non è una novità che gli Stati Uniti (come l’Italia) sostengano Fayez al-Sarraj. Lo facevano con intelligence e operazioni speciali. La novità è che il Presidente libico abbia chiesto l’intervento americano contro le postazioni dei cecchini di Isis, arroccati in poche centinaia di metri quadrati nel cuore della città. Al-Sarraj era stato finora cauto, quasi riluttante, nel sollecitare appoggi militari internazionali. Voleva fare da solo. Chiedeva solo aiuti per rafforzare le proprie capacità. Il Presidente libico si è dovuto arrendere all’evidenza: il tempo stringe; armi e addestramento non bastano a debellare Isis. Il cerchio delle milizie di Misurata, alleate di al-Serraj, si è stretto intorno a Sirte. E’ rimasto però un nucleo duro di combattenti dello Stato Islamico, in grado d’infliggere agli assedianti un prezzo altissimo di vite umane. Le milizie di Misurata sono forze volontarie e generose ma con armamenti di fortuna. La città, chiave negli equilibri libici, ha già versato sangue durante la rivoluzione contro Gheddafi. Al-Sarraj ne avrà bisogno per consolidare il suo governo di accordo nazionale, tanto stimato all’estero quanto fragile nel paese. Chiedere aiuto agli americani era il minore dei mali. Nel 2011 gli Usa avevano frettolosamente interrotto l’operazione Nato, Unified Protector, di cui erano alla guida. Adesso tornano in Libia a titolo nazionale, almeno per ora, con la doppia legittimità della richiesta di al-Sarraj e della risoluzione 2249 del Consiglio di Sicurezza Onu che autorizza «tutte le misure necessarie» nella lotta contro l’Isis. Non pone limiti geografici. La coalizione contro il Califfato in Iraq e in Siria, di cui fa parte anche l’Italia, potrebbe teoricamente ampliare le operazioni alle basi Isis in Libia. Al-Sarraj e i suoi alleati di Misurata si sono trovati in stato di necessità. Washington vede in Sirte un’estensione di Raqqa e di Mosul: il Califfato si combatte dappertutto. Vi è il comune interesse a che Sirte sia riconquistata da forze leali, o alleate con il governo di Tripoli, anziché da quelle del generale Khalifa Belqasim Haftar, uomo forte del governo concorrente di Tobruk, sostenuto dall’Egitto. Dando una mano ad al-Sarraj a Sirte gli americani mandano un segnale a Tobruk eal Cairo. Se i raid di ieri saranno sufficienti a stanare Isis da Sirte l’intervento americano si fermerà qui. Per il momento. Quest’amministrazione limita al minimo indispensabile i coinvolgimenti militari. Negli ultimi tre anni di presidenza Obama ha dovuto tuttavia alzare la soglia: è rimasto in Afghanistan, è tornato in Iraq, è intervenuto in Siria. Adesso la Libia. L’impegno militare, minimalista rispetto a G.W. Bush, è diventato costante. Né a Washington si parla più di guidare dalle retrovie («leading from behind»). Nelle retrovie troviamo piuttosto gli europei. Mentre gli aerei americani sono in azione a Sirte, tace la vicina Roma, tacciono Parigi e Londra, grandi fautori dell’intervento anti-Gheddafi del 2011. Quanto può durare questo silenzio, specie da parte italiana? Questo è il Mediterraneo, confine Sud dell’Europa. Se al-Sarraj è stato costretto a chiedere l’intervento militare americano, vacilla la teoria gradualista che al legittimo governo di Tripoli bastino riconoscimento internazionale, tempo, appoggio politico e addestramento militare. Sono tutte cambiali a lunga scadenza. Quella di Isis è esigibile subito. Per estirpare il Califfato ci vuole qualcosa di più rapido e muscolare. Come i raid americani contro la roccaforte jihadista di Sirte.