Tra i miliziani sulla linea del fronte. «Abbiamo bisogno della collaborazione dell’Italia»

Parliamo di guerra. A venti metri da noi i cecchini di Isis caricano di continuo i loro fucili ad alta precisione. Sono colpi secchi. Ogni tanto una raffica nervosa. Seguita da altre più lunghe, più intense. Sopra le nostre teste, i muri di cemento grezzo sono segnati da nuovi ghirigori di fori da proiettili in entrata, vanno a morire in una nuvoletta di fumo grigio che odora di polvere e zolfo. «Qui devi correre. Qui abbassa la testa, stai contro quella parete, riparati dietro quella porta di ferro», dice Ayman, il 23enne che si offre di guidarci sulla prima linea. Avvicinandoci, le stanze delle abitazioni sono via via sempre più ingombre di macerie, infissi sventrati, sporcizia avviluppata nei tappeti, cibo che imputridisce tra nugoli di mosche e olezzo. Sono i resti dei bivacchi dei miliziani. Sino a otto giorni fa erano quelli lasciati dai jihadisti di Isis, che si mischiano ora con quelli più freschi degli uomini della rivoluzione libica in avanzata.

Tra le macerie

È una corsa guidata dall’adrenalina e, per chi come noi giunge dalle retrovie, dalla paura del pericolo incombente, onnipresente, che però non conosci. I colpi arrivano improvvisi. Ci si deve fidare dei cartelli precari scritti in arabo su tavole di legno e cartoni. «Non proseguire, cecchini», indicano con l’aggiunta di una freccia in rosso per il passaggio meno esposto. Sulla straducola che divide la zona liberata del quartiere «hei dollar», così chiamato per il fatto che era abitato dalle famiglie ricche che sostenevano Gheddafi, da quella ancora nelle mani dei combattenti del Califfato, siamo al capolinea. Più in là c’è Isis.

Per raggiungerlo si deve passare per buchi scavati nei muri nelle case, superare porte sfondate e poi rimesse precariamente in piedi con appoggiate traversine di ferro che servono a lanciare l’allarme in caso di sortite nemiche. La zona è presidiata da una brigata di combattenti del quartiere di Tajura, a Tripoli. Giovani e giovanissimi con capelli e barbe lunghe. Sembrano godere della mobilia lussuosa, i tappeti colorati, le specchiere e le cucine lucenti, si sono bene organizzati con ghiacciaie mobili che contengono Fanta e Pepsi. Il loro rancio è a base di uova, peperoni, hummus e tonno in scatola. Qualcuno si occupa di raccogliere i fichi che maturano copiosi nei giardini.

I raid Usa

«Gli americani fanno la differenza? Certo che la fanno. I loro raid avvengono soprattutto di notte. Di giorno mandano i droni in esplorazione, udiamo il ronzio. E con il buio arrivano gli attacchi. Colpi sempre molto precisi. Ma pochi. Troppo pochi. Sino ad ora hanno distrutto tre o quattro tank, un garage dove Isis riparava i mezzi, alcuni blindati e un paio di depositi. Purtroppo gli arsenali più importanti sono nascosti nei sotterranei. I missili intelligenti made in Usa non li possono individuare», dice Abdelaziz Othman, il 26enne che accetta di parlare ben contento di portarci ad un foro sbrecciato di proiettile dove, affacciandosi con circospezione, è possibile vedere i movimenti nelle postazioni di Isis. Qui due giorni fa un suo amico di giochi è stato freddato da un colpo che ha attraversato il braccio sinistro e il polmone vicino al cuore. «È soffocato nel suo sangue».

«Non facciamo prigionieri»

Parlando con lui e i suoi uomini è possibile capire il carattere urbano e complicato dell’ultima sfida per Sirte. «Gli americani non potranno mai vincere solo dall’aria. A meno che non la radano al suolo sistematicamente. Ma è ovvio che non lo vogliono assolutamente fare», spiega Hassan Almagashush, il 36enne capo della brigata «Mujahed», di Misurata, da tre mesi impegnato nella battaglia. Una classica guerriglia urbana, che ricorda quelle ormai tristemente famose degli ultimi anni in Iraq e Siria. E più Isis sarà costretto nel cuore dei suoi ultimi nidi di resistenza, più sarà combattuta strada per strada, casa per casa, stanza per stanza. Nessuno fa prigionieri. «Isis ci taglia la testa. Noi, se li prendiamo vivi (ma è rarissimo perché si fanno saltare in aria), prima li interroghiamo, poi li eliminiamo con un proiettile», dice un giovane dall’aria di uno che non dice tanto per dire. A pochi metri da questa complicata linea del fuoco che zigzaga tra vicoli, giardini e villette, scopriamo che ogni blocco di case ha una sua guida che conosce gli ultimi sviluppi nel suo settore, indirizza per viottoli relativamente al riparo da cecchini e soprattutto cariche esplosive. «Isis le piazza di notte e sono diventate l’incognita più pericolosa. Sono vere mine nascoste tra le macerie, sotto la sabbia, appoggiate a cancelli e portoni. Rappresentano la causa maggiore delle nostre perdite», dice Suahib, 24enne, a sua volta di Misurata.

Frigoriferi e Internet

Hassan lo sta contattando per una missione importante. A Misurata sono vicini di casa. Si conoscono dalle elementari. E cerca con lui di terminare una sorta di censimento delle forze sul campo. Hassan è parte di un comitato formato da 8 capi milizia incaricati di fare ordine tra i loro ranghi. Devono contarsi, valutare chi combatte davvero e chi fa solo atto di presenza per ottenere poi soldi, incarichi e onori dal governo di Tripoli sostenuto dalla comunità internazionale. È un problema che avevano anche durante la rivolta contro Gheddafi nel 2011. Ma adesso i comandi di Misurata e Tripoli devono provare agli americani e ai loro alleati che non sono più un’armata Brancaleone, che hanno un’organizzazione credibile e centralizzata. C’è una sorta di nuova polizia militare che pattuglia le strade del «quartiere 700»: il nome gli venne dato negli anni Novanta, quanto Gheddafi volle premiare i suoi fedelissimi a Sirte costruendo appunto 700 ville. E qui adesso stanno acquartierati i comandi delle milizie. Hanno generatori, frigoriferi, depositi di carburante e di cibo, alcune sono riuscite persino a costruirsi un centro con collegamento a Internet. I telefoni invece non funzionano, se non quelli satellitari. Abu Obeid, un altro giovane delle milizie scelte, spiega che la loro avanzata di quasi un chilometro a «hei dollar», terminata due giorni prima dell’inizio dei raid Usa (ci tiene a sottolinearlo), li ha portati faccia a faccia con un gruppo di Isis comandato da un ex ufficiale di Gheddafi alla testa di jihadisti tunisini, egiziani e sudanesi. «Ma è ovvio che contro di noi ci sono anche libici, tanti libici locali, conoscono il territorio, combattono a casa loro», afferma.

Il centro Ouagadougou

Per capire meglio come la geografia della battaglia sta cambiando grazie all’intervento americano ci rechiamo tra le brigate che accerchiano Ouagadougou, il gigantesco centro congressi voluto da Gheddafi e costruito su di una collina dall’italiana Impregilo dal 1992 al 1996. Lo osserviamo da un buco di proiettile in un muro a un chilometro di distanza. «È qui che gli americani colpiscono più di frequente per il fatto che si trova in una zona aperta, lontana dalle abitazioni civili, facile da individuare», dicono i giovani che lo sorvegliano sotto tendoni di fortuna al riparo dal sole del pomeriggio. Uno di loro con la cartina della zona in mano mostra le postazioni di Isis. In meno di un mese si sono ridotte ad una striscia di nidi di resistenza che corre da Nord a Sud nella cerchia urbana, dal mare al deserto, per circa sette chilometri, in alcuni punti larga solo poche centinaia di metri. «Isis l’anno scorso aveva ribattezzato Ouagadougou con il nome di Falluja. Pensava, si illudeva che la sua centrale in Libia resistesse come quella in Iraq. Ma ora Falluja è caduta, per Sirte ci vorrà qualche settimana in più», esclama Hassan. Quanto tempo occorra però è difficile stabilire. A fine giugno erano convinti fosse solo «una questione di giorni». Ora quelli che stanno davvero sulla linea del fuoco sono molto più cauti.

Un nemico sfuggente

«Mai sottovalutare il nemico. Isis ha combattenti esperti, ben addestrati e coraggiosi. Venderanno cara la pelle. Abbiamo notato la loro grande capacità di adattamento. I loro sotterranei sono ancora ben forniti e pare che neppure le bombe americane riescano a centrarli», spiegano nel centro comando e controllo situato non lontano dall’ospedale da campo. Una delle armi più usate da Isis, oltre ai cecchini e alle mine, sono le auto-bomba blindate in modo artigianale nelle loro officine locali. Veri proiettili kamikaze coperti da lastre di acciaio saldate. Nulla possono contro di loro le mitragliatrici e i fucili delle brigate che li accerchiano. «Abbiamo avuto oltre 350 morti e migliaia di feriti — lamentano —. Se anche voi italiani collaboraste attivamente con gli americani, la caduta di Isis sarebbe più veloce».