«Sul piano militare stiamo fornendo alle operazioni antiterrorismo un sostegno logistico», dice il ministro degli Esteri al Corriere. L’Italia permette già agli Stati Uniti di usare per i bombardamenti contro Daesh le basi sul nostro territorio? «Sì».

«Presto l’Italia potrebbe riaprire la sua ambasciata a Tripoli, chiusa nel febbraio 2015. Il nostro governo ha nominato ambasciatore Giuseppe Perrone», dice al Corriere della Sera il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.

Se a prima vista l’intenzione di rimettere in funzione la nostra sede diplomatica dovesse apparire una modesta formalità, è il caso di ricordare che l’anno scorso gli uffici vennero abbandonati perché la capitale della Libia era tutta in mano a milizie integraliste islamiche e non c’erano più sicurezza per il personale né autorità del posto ritenute interlocutrici affidabili.

Per chi ha seguito le vicissitudini del Paese un tempo dominato da Muammar el Gheddafi, quell’ambasciata è stata un indicatore dei rapporti con l’Italia: rispettata e talvolta tenuta sotto pressione dal regime del Colonnello, poi smobilitata il 18 marzo 2011 a causa dei bombardamenti aerei alleati contro di lui, assaltata e bruciata da gheddafiani il primo maggio successivo, riaperta nell’estate di cinque anni fa mentre il Colonnello era in fuga.

Quando tornerà a funzionare, questa volta, l’ambasciata potrebbe essere in una sede provvisoria, ma il senso della scelta è evidente: mentre nostri alleati come Gran Bretagna e Francia schierano in Libia unità speciali e Paesi mediorientali come l’Egitto affaticano una riconciliazione tra le fazioni locali, l’Italia tende a presentarsi come Stato utile a negoziati più che a esibizioni di muscoli. Il che non esclude impieghi maggiori di nostri militari.

Da Tripoli il primo ministro del governo di unità nazionale Fayez Serraj, intervistato dal Corriere, ha chiesto all’Italia più rapidità nel concedere visti per i feriti libici da curare nel nostro Paese e alcuni ospedali da campo per soccorrere quanti combattono Daesh in prima linea. Secondo Serraj visori notturni e giubbotti antiproiettile già forniti non bastano. Oltre a un ospedale da campo, che altro sta per dare l’Italia a Serraj?

«Moltissimo, e su piani diversi. Spero che la riapertura dell’ambasciata, appena verificate le condizioni di sicurezza, sia il sigillo a un grande sforzo di cooperazione. Il nostro impegno non deve stupire: contribuire a stabilizzare la Libia è una priorità nazionale, dalla sicurezza all’immigrazione».

Oggi con quali mezzi?

«Sul piano militare stiamo fornendo alle operazioni antiterrorismo un sostegno logistico. Se ci saranno richieste ulteriori attività di addestramento della guardia presidenziale e di sostegno alla guardia costiera le valuteremo. Serraj ci ha fatto avere la lettera della quale avevamo parlato giorni fa, quando mi aveva chiesto una presenza della nostra Sanità militare».

In sostanza il primo ministro vuole strutture italiane per curare sul posto i miliziani libici in armi contro Daesh a Sirte. Che ne è stato della sua lettera?

«L’ho trasmessa alla Difesa che si occuperà degli sviluppi. Oltre ad avere risvolti militari e umanitari, la collaborazione ne ha di economici e anche culturali».

Sarraj vorrebbe dall’Italia una protezione dei siti archeologici? Come l’attività della sanità militare, comporterebbe invio di soldati.

«Qui non si sta parlando di invio di truppe, ma di operazioni umanitarie. Quanto all’iniziale interesse manifestato dal governo libico per una protezione e valorizzazione dei beni culturali, vedremo di che cosa si tratta».

L’Italia permette già agli Stati Uniti di usare per i bombardamenti contro Daesh le basi che esistono sul nostro territorio?

«Sì. Non nella primissima fase, ma da quando il ministro della Difesa ne ha informato il Parlamento. Sono azioni mirate a una zona circoscritta di Sirte».

Il 9 marzo scorso al Senato lei, pur essendo contrario al «rullare di tamburi», ha detto che l’Italia si sarebbe difesa in Libia dalla minaccia di Daesh con «operazioni di intelligence» e che queste avrebbero potuto comportare «condizioni di sicurezza assicurate dal supporto di unità militari italiane». Adesso militari italiani in Libia ci sono?

«Non abbiamo missioni militari in Libia . Se le avremo saranno autorizzate dal Parlamento».

Per operazioni a copertura dei servizi segreti non vi basterebbe informare il Comitato parlamentare di controllo?

«Non commento per definizione operazioni di natura riservata».

Ne deduco che in Libia possono esserci militari a protezione di nostri agenti, non contingenti militari. Ministro, quanto è l’Egitto a frenare una soluzione della crisi libica? La compagnia petrolifera nazionale Noc, per esempio, ha invitato a difendere il terminale di Zueitina che sarebbe stato attaccato da forze di Khalifa Haftar, generale legato al Cairo.

«L’Egitto comprensibilmente considera quella libica una questione di sicurezza nazionale, avendo lunghi confini in comune. Mi auguro che queste preoccupazioni legittime non si tradurranno in una tentazione a dividere la Libia in due».

Ossia con uno Stato-cuscinetto vicino all’Egitto e brandelli di Libia per altri.

«Sarebbe una minaccia per l’Italia, una tragedia per la Libia e un grosso errore per l’Egitto. Per fortuna il governo egiziano conferma in tutte le sedi di lavorare per una Libia unita».

A suo avviso come dovrebbe reagire l’Unione Europea mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan dopo il fallito golpe ha fatto arrestare in Turchia 18 mila persone, cacciare 1.700 militari, incarcerare decine di giornalisti e Ankara minaccia di non applicare gli accordi sul blocco dei flussi di profughi in base ai quali l’Unione le ha di fatto affidato i propri confini esterni ?

«L’Europa deve essere ferma sui principi di condanna delle violazioni di diritti. Allo stesso tempo cerchiamo di non perdere di vista i nostri interessi nazionali tra i quali c’è, se possibile, mantenere il filo dei rapporti con la Turchia. Sono un po’ preoccupato e scandalizzato…».

Da che cosa?

«Dalla sensazione che la questione emigrazione sparisca dall’agenda di Bruxelles. Se qualche Paese pensa che il problema riguardi solo Grecia e Italia, sentendosi magari al sicuro all’ombra di muretti di confine appena costruiti, si sbaglia. Noi alziamo la voce perché sono in gioco le fondamenta stesse dell’Unione».