Caro Direttore, In Libia, l’Europa e gli Stati Uniti hanno investito nel governo Serraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite: potrebbe non bastare per stabilizzarla. È uno dei problemi sul tavolo del vertice di Ventotene per Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi.  

 

In quel Paese si giocano almeno tre partite. 

La prima è essenzialmente tra libici. Non solo tra Cirenaica e Tripolitania, con al sud l’ingovernabile Fezzan; ma anche all’interno del tradizionale tessuto tribale libico, riportato in auge dalla caduta del regime gheddafiano; come pure tra milizie ben armate, quali quelle ’laiche’ di Zintan, e città protagoniste della guerra di liberazione, ad iniziare dalla più islamizzante Misurata, determinate a far valere tutto il loro peso. La posta riguarda il futuro assetto istituzionale della Libia – se unitario, federale o tripartito – e soprattutto il controllo materiale degli impianti e la ripartizione dei proventi energetici. È uno scontro sugli equilibri di potere futuri, che dall’esterno si può al più tentare di accompagnare. Per una sintesi e per evitare una guerra civile – sempre possibile, seppur poco compatibile con l’indole locale – sarebbe necessario riunire tutti gli attori significativi del Paese, anche quelli più intransigenti che controllano le situazioni sul terreno. Il Governo Serraj non ha neppure provato a farlo; non ne avrebbe avuto l’autorevolezza, percepito come essenzialmente venuto da fuori e poco rispondente ai bisogni della popolazione. Lontano dall’ottenere la fiducia dell’assemblea di Tobruk. 

La seconda partita riguarda anche soggetti esterni. Concerne il possibile ruolo dell’Islam politico. Si tratta ancora di uno scontro sul potere futuro, che coinvolge e travalica la Libia stessa, ma con occhi attenti allo sfruttamento delle sue risorse. Ne contrappone i fautori, dalla Turchia al Qatar, a chi ne teme l’affermarsi, dagli Emirati, al più recente ’laicismo’ saudita, all’Egitto che ne fa una questione di sicurezza nazionale, spingendosi fino a voler trasformare l’intera Cirenaica in una zona cuscinetto. Ghiotta occasione di guerre per procura, come quella del generale Haftar, ma anche di qualche intromissione opportunistica di partner europei. Senza contare la silenziosa attesa di Mosca, pronta come sempre a sfruttare le contraddizione occidentali. Andrebbe individuato un meccanismo internazionale atto a contenere e mediare gli interessi in campo.  

Il terzo confronto infine è, anche nello scenario libico, quello con il terrorismo jihadista. Una contesa di potere questa volta globale, che riguarda in primis gli Stati Uniti, gli unici capaci di azioni efficaci con droni e aerei. Non solo l’Isis e la sua roccaforte di Sirte (dalla quale i miliziani fuggono al Sud privo di qualsiasi controllo, più che verso le presidiate coste europee), ma anche molte altre sigle egualmente pericolose e suscettibili di colpire l’Occidente, compresa al Qaeda nella sua versione per il maghreb islamico. Esclusa ogni massiccia presenza di truppe straniere sul terreno, occorrerebbe organizzare in modo più coordinato e coerente forze terrestri libiche, selezionarle, addestrarle, armarle, appoggiarle con attività aeree mirate di ricognizione e di supporto. Contando meno su milizie di parte, per quanto efficaci possano essere. 

Conflitto tra fazioni, disputa islamica, jihadismo sono dunque tre fattori importanti della crisi libica. Un tavolo dei principali stake holders locali, un’istanza di conciliazione internazionale, l’addestramento di un corpo militare libico potrebbero aiutare nella ricerca della soluzione. Non è cosa per il solo Serraj, né per un singolo Paese e neppure per l’ONU se non si superano i conflitti tra potenze. Mentre limitarsi, senza una visione più complessiva, ai pur necessari interventi anti terrorismo rischia di fotografare una situazione di stallo, riflette una tripartizione di fatto della Libia tra est, ovest e sud.  

Ci vuole un cambio di passo. Perché non provare a pensare, ad esempio, sul modello di altre crisi internazionali, ad un “gruppo di contatto” strutturato che raccolga e responsabilizzi Paesi in grado di influire sulla situazione, europei e non? Paesi disponibili ad assumersi apertamente l’onere di un’impegnativa iniziativa diplomatica, d’intelligence, militare (sia pure non sul terreno), umanitaria, andando oltre il lavoro meritorio finora svolto dalle Nazioni Unite. All’Italia, strategicamente interessata ad una Libia unita, stabile, senza santuari jihadisti, l’iniziativa potrebbe convenire.