VATICAN INSIDER
I Francescani non hanno abbandonato la popolazione: invocano la pace e denunciano la maggiore attenzione degli Stati all’esodo dei profughi piuttosto che alla situazione stessa
«Siamo tutti persone dello stesso Dio in cui crediamo. Nel nome di questo Dio possiamo vivere in pace come fratelli». È questo il messaggio che arriva da Tripoli attraverso le parole di monsignor George Bugeja, Ofm, coadiutore del vicariato apostolico di Tripoli e amministratore del vicariato apostolico di Bengasi. Nella capitale libica, dove operano anche otto missionarie della Carità (la Congregazione fondata da Madre Teresa), la presenza francescana si è ridotta a tre frati, due invece i religiosi in servizio nel vicariato di Bengasi. Il carisma di san Francesco si respira nelle azioni e nella testimonianza di queste figure che hanno scelto di restare per essere seme di speranza per il futuro.
«San Francesco era una persona molta pratica – esordisce monsignor Bugeja – e capace di interpretare la volontà del Signore nelle diverse circostanzi della sua vita. Da lui ho imparato a fare quello che posso per essere d’aiuto, a vivere in semplicità e a stare quanto è possibile vicino alla gente. Il resto sarà nelle mani del Signore». I segni del conflitto si vedono chiaramente e colpiscono, senza distinzioni, la realtà cristiana. «A Bengasi, nell’ottobre 2014, il vicario apostolico, oggi emerito, monsignor Sylvester Magro e i sacerdoti hanno dovuto lasciare i locali della chiesa e di recente mi hanno informato che la chiesa è stata danneggiata: è collocata nella zona di Souq el-Hout dove c’è ancora l’Is, sicuramente ristabilirsi lì rappresenterà una grande sfida. Nel vicariato ci sono ancora, comunque, due francescani».
Se numericamente la Chiesa è ridotta ai minimi termini, la comunità cristiana resta un punto di riferimento, soprattutto per le popolazioni filippine e africane che vivono, ogni venerdì, nella chiesa di San Francesco la celebrazione dell’eucaristia domenicale. Gli africani provengono in gran parte dalla Nigeria, ma anche dal Senegal, dal Burundi, dalla Sierra Leone, dalla Liberia, dal Niger e dal Ghana; e, ultimamente, partecipano anche gli europei rimasti in questo territorio orfano della pace. «Il lavoro pastorale, anche se limitato – commenta monsignor Bugeja – è molto valido. Come Chiesa cattolica non abbiamo difficoltà a celebrare le nostre liturgie. La liturgia si può soltanto celebrare nella chiesa e solo per gli stranieri. Deve sempre essere chiaro che i libici sono di fede musulmana e noi rispettiamo la loro fede come loro rispettano la nostra». L’incontro è con i filippini e soprattutto con gli immigrati africani. «Anche se ci troviamo in una situazione finanziaria difficile, cerchiamo di aiutarli nel miglior modo possibile. Gli immigrati africani, molti dei quali sono poveri e più bisognosi di noi, si dimostrano molto generosi nel poco che hanno».
A Tripoli l’impegno pastorale si «limita» ai locali della chiesa. Tutto si concentra nella giornata del venerdì dove, «a parte le diverse messe, vengono preparati gli incontri di preparazione per i diversi sacramenti sia per i bambini che per gli adulti, e vengono proposti incontri di preghiera; tramite la Caritas Libia, inoltre, cerchiamo di offrire un aiuto a quelli che hanno bisogno». Non solo sacerdoti. A Sebha, Obari, Ghat, Murzuk e Brack ci sono anche delle comunità curate da sei catechisti. Purtroppo, in assenza di sicurezza, non ci si sposta facilmente. «A un sacerdote – prosegue – hanno sparato alla macchina e hanno rubato e abbandonato il veicolo nel deserto». Nonostante questo, «ultimamente abbiamo incominciato ad andare una volta al mese a celebrare l’eucaristia in queste comunità. Fortunatamente ci sono voli interni per Sebha e Obari. Eccetto Sebha, le altre comunità da due anni non celebravano l’eucaristia. A fine luglio ci hanno informato che il posto d’incontro per la comunità cattolica a Obari è stato saccheggiato e quello che non si poteva rubare è stato distrutto».
Sebha è un luogo strategico, perché è lì dove i migranti africani arrivano, dopo aver attraversato il deserto, per cercare di continuare il loro viaggio verso l’Europa. «Purtroppo a queste persone vengono promesse molte cose, anche un percorso in un paese migliore, ma le conseguenze per loro sono completamente differenti. Sappiamo tutti cosa sta succedendo».
Sembra, però, che l’Europa sia più preoccupata del possibile esodo dei profughi dalla Libia piuttosto che della situazione stessa della Libia… «Sì è così, anche se ultimamente abbiamo sentito diverse promesse ed effettivamente abbiamo visto che diversi paesi hanno mandato medicinali e altri aiuti necessari. Spero che questo continui e che anche nel prossimo futuro qualche rappresentanza diplomatica (ambasciata) europea si faccia presente».