Chiude dopo un anno, 1500 ricoveri e 500 operazioni l’ospedale vicino a Bengasi.  Gino Strada: «Ci hanno minacciati, non ci sono più le condizioni minime di sicurezza»

Ma vi hanno minacciato direttamente? «Eh, altroché…». La voce di Gino Strada arriva dal Sudan e il tono è di chi in tanti anni ha visto e passato di peggio. Però la preoccupazione c’è: «Sì, abbiamo deciso di chiudere il nostro ospedale in Libia. Non ci sono più le condizioni di sicurezza necessarie».

Emergency ammaina la bandiera issata solo un anno fa nel piccolo villaggio di Gernada, ai bordi della Libia orientale governata dal generale Khalifa Haftar, vicino a Bengasi e alla Derna dove sventolavano i drappi neri dell’Isis. Troppe le violenze e le intimidazioni. Nessuna garanzia. Impossibile continuare. Una scelta con pochi precedenti: accadde solo in Afghanistan, dopo il sequestro Mastrogiacomo e il caso dei tre cooperanti arrestati. «La situazione è diversa — dice Strada —. Non abbiamo mai abbandonato l’Afghanistan e non lo faremo con la Libia. Ma qui la scelta s’è rivelata infelice. E in un momento in cui gli ospedali vengono perfino bombardati, era inutile stare a prendere altri rischi».

S’è aspettato di dimettere gli ultimi feriti e lunedì scorso c’è stata la consegna delle chiavi al ministro della Sanità del governo di Tobruk, Reida al Oakley, fra lacrime e richieste di rimanere: dopo 1.500 ricoveri e 500 interventi di chirurgia di guerra, il materiale e i medicinali sono sufficienti per far funzionare i reparti altri sei mesi, «poi si vedrà se si può riaprire in qualche angolo di Libia più sicuro». Un segnale in controtendenza, ora che la Farnesina sta riportando il personale a Tripoli… «Noi, com’è noto, non lavoriamo di concerto con la diplomazia — dice Strada —. E comunque che senso ha riaprire un’ambasciata, se intanto s’accetta che chiuda un ospedale?…». Al Gernada Trauma Center — due sale operatorie e diciotto posti letto, sessanta libici e otto italiani nel personale —, i problemi non li hanno dati i jihadisti: «S’è creata una situazione di pericolo con le autorità locali. Bulli di paese che credono di fare quel che vogliono, solo perché portano una divisa…».

I bulli, come li liquida Strada, sono gli sgherri del generale Haftar e del governo di Tobruk. Che non accettano il governo d’unità nazionale di Serraj, insediato dall’Onu a Tripoli. Che da diversi mesi, contrariati dalle scelte di Roma e spinti dall’alleato egiziano, alimentano una campagna dal tono spesso anti italiano. Che fanno capo al ministero dell’Interno, una palazzina tutta celle e grate di ferro, appena rimessa a nuovo a poche centinaia di metri dall’ospedale di Gernada. Nelle ultime settimane, gli episodi si sono ripetuti: il pestaggio a sangue d’un infermiere libico mentre entrava per il cancello principale; due sparatorie tra poliziotti e miliziani dell’esercito regolare, proprio davanti al cortile di Emergency; avvertimenti più o meno velati nelle corsie.

In aprile avevamo testimoniato di personale difficoltà quotidiane create ai medici e agl’infermieri, tra fornitori che non rispettavano gli ordini, farmaci stoppati nei porti tunisini, ambulanze che non potevano muoversi senza i permessi militari, impossibilità di trovare perfino la soluzione salina, le lenzuola, la carta igienica. Per non dire della libertà di movimento: a noi giornalisti era toccato finire agli arresti, colpevoli d’aver fatto qualche immagine e qualche domanda in ospedale. Tira una brutta aria per le ong straniere: giorni fa, anche una nave di Medici senza Frontiere per il soccorso dei migranti è stata arrembata da un barchino-pirata. «Non possiamo aspettare che ci scappi il morto — spiega Emanuele Nannini, il vicecoordinatore che ha messo in piedi l’operazione Libia —, inutile rimandare oltre questa decisione d’interrompere le attività. Non stiamo scappando. Il ministro della Sanità ha provato più volte ad aiutarci e alla fine ha dovuto darci ragione: il livello di decisione è spesso insondabile e nemmeno la più bassa delle autorità accetta gli ordini superiori. Naturalmente, siamo molto preoccupati per la popolazione: il sistema sanitario è collassato. E saranno ancora una volta i civili a pagare».