Amettere in fila le varie crisi internazionali, alla Libia spetta di gran lunga il primo posto per impatto sulla nostra sicurezza nazionale. Non è solo questione, pur cruciale, di flussi d’immigrazione da frenare o di posizioni energetiche da tutelare. È soprattutto l’interesse ad evitare che perduri una situazione d’instabilità e di strisciante guerra civile, che dia spazio ad un pericoloso retroterra logistico per il terrorismo jihadista. Ma qual è la situazione oggi in Libia? Manca di fatto un’autorità centrale, in grado di imporsi sul territorio. Il governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale, è imbelle e neppure formalmente insediato. Altri due governi, privi di legittimità giuridica, quello laico di Abdullah al- Thani a Tobruk e quello islamista di Khalifa Gwell a Tripoli, sopravvivono ciascuno sostenuto da opposti gruppi di milizie e altrettanto due assemblee parlamentari. Il generale Khalifa Haftar, comandante del sedicente esercito nazionale libico, detta legge ad Est in Cirenaica, spalleggiato dall’Egitto, fino a minacciare perfino la conquista di Tripoli. Le forze islamiste della città martire di Misurata, liberata Sirte dall’Isis, attendono di incassare il credito di potenza e credibilità acquisito sui campi di battaglia. Il Fezzan e il Sud sahariano restano instabili e teatro di traffici di ogni tipo. Dall’esterno, Qatar e Turchia sul fronte islamico, Egitto e Emirati Arabi su quello laico, soffiano sul fuoco a sostegno dei rispettivi alleati sul terreno. Gli Stati Uniti, almeno con l’amministrazione Obama, si sono limitati a sporadiche azioni antiterroristiche mirate, con droni e aerei. I nostri principali partners europei non brillano per chiarezza e coerenza di intenti. La Russia, finora, ha atteso, non facendo mistero tuttavia di stare dalla parte laica,quella di Haftar e dell’Egitto. Insomma, una situazione di stallo, suscettibile però di degenere rapidamente verso un acutizzarsi della guerra civile o verso pericolosi rigurgiti di terrorismo jihadista non solo a matrice di Isis. Che fare? È difficile, intanto, allo stato dei fatti continuare a non prendere atto del fallimento del tentativo dell’Onu, che pure abbiamo convintamente appoggiato, di formare dall’esterno un governo di unità nazionale libico. Il realismo impone di tentare altre strade, che facciano leva sulle forze endogene in grado di esercitare in Libia un controllo effettivo del territorio, di coinvolgere le potenze in grado di influenzarle dall’esterno, di reinteressare Washington ad una soluzione viabile e complessiva del dossier libico, prima che Mosca metta di nuovo gli americani di fronte ad un fatto compiuto. Con che obiettivo? La partita libica si gioca su tre fronti principali: il futuro assetto istituzionale del Paese (scontando l’indesiderabilità di una partizione foriera di ulteriore instabilità, se sia preferibile una soluzione unitaria o federale come presupposto di un governo autorevole e efficace), la ripartizione dei proventi energetici (con il connesso, spinoso problema delle concessioni internazionali), la messa in sicurezza dal terrorismo jihadista (compito che spetta primariamente ai libici, pur con l’indispensabile sostegno e formazione esterni). Come procedere? Venuta ormai meno l’esigenza di non pregiudicare le iniziative onusiane, viene da domandarsi se non occorra a questo punto un’iniziativa concertata di un limitato gruppo di Stati più direttamente interessati comprendente gli sponsors esterni delle principali fazioni libiche, preliminare ad un processo di conciliazione da avviare tra le fazioni stesse. In Siria un tentativo simile sembra aver funzionato. Sarebbe poco opportuno che in Libia fosse di nuovo la Russia, magari percependo una maggiore accondiscendenza americana, a guidarlo. E qui potrebbe aprirsi uno spazio per l’Italia. Abbiamo, come detto, precisi interessi di sicurezza, necessitiamo al più presto di autorità libiche rappresentative, siamo considerati in qualche modo «titolari» del dossier libico agli occhi della comunità internazionale (forse anche dell’amministrazione Trump). Le premesse per una forte iniziativa politico-diplomatica italiana, senza discriminare alcun interlocutore libico, ci sono tutte.